Correva l'anno 1938
Quando il barone abbracciò il contadino
Piero Compagna e la bonifica della Piana di Sibari
nel ventennio fascista
di Luigi Petrone
Nel 1879 l’archeologo francese Francois Lenormant, giunto nella piana di Sibari alla ricerca della mitica città scomparsa, la descrive come un’immensa distesa di terre “che non si falciano mai e sono deserte” dove i bufali affondano in terreni fangosi tra “pozzanghere d’acqua morta…e la febbre regna sovrana in queste bassure paludose”.
Cinquant’anni dopo quei campi tutto erano tranne che fonte di vita. Dalla Piana di Sibari alle terre della Sila e del Neto, vaste aree insalubri disegnavano in Calabria una tragica geografia di miseria e malattia. Un rapporto del 1926 della Società Anonima Bonifiche sulla piana di Sibari, scrive che “…Schiavonea e Doria sono i soli centri...in cui le popolazioni falcidiate dalla malaria, abbiano potuto fin ora resistere allo spopolamento…”. Le aree fluviali vallive del Crati, dell’Esaro e del Coscile, tutto il territorio che si estende da Trebisacce alla marina di Rossano, è un’estesa trappola malarica; in queste zone, chi vi è costretto a vivere, raramente superava i quarant’anni di vita. Sino a quando, negli anni Venti del secolo scorso, non furono intraprese le opere di bonifica.
Dopo il sanguinoso epilogo della Grande Guerra la questione su queste terre si ripresentò in maniera più forte ed incalzante. Dalle falde del Pollino alla Sila greca, quest'immenso territorio è appannaggio della grande proprietà terriera dove prevalgono, su tutti, tre famiglie, Toscano, Serra e Compagna. Nemmeno il Decreto Visocchi (1919) che riconosceva ai contadini poveri, organizzati in cooperative il diritto di occupare le terre incolte, risolse il problema; negli anni 1914-1922 le lotte contadine incendiano la Calabria1. Le masse lavoratrici che avevano costituito il grosso dell’esercito combattente si sentirono tradite non vedendo assegnato l’agognato pezzo di terra costretti dalla fame a lasciare quella patria per la quale avevano rischiato la vita per andare a cercare il proprio avvenire nelle Americhe. La politica autarchica del Governo con la Legge del 24 dicembre 1928 (“legge Mussolini”)diede questa volta una svolta decisiva ai grandi progetti di “bonifica integrale” delle aree paludose d’Italia. E’ vero, al governo fascista stava a cuore la soluzione del problema delle bonifiche quanto la ricerca di consenso nel malcontento della popolazione, tuttavia, consigliato dalla saggia politica agraria di Arrigo Serpieri, seppe ben fare promuovendo le leggi fondamentali per la bonifica idraulica e la difesa del suolo. Negli anni 1923 e 1924 il Governo aveva, infatti, emanato la legge che imponeva ai grandi proprietari terrieri d’intervenire nelle azioni di bonifica. “All’opera di prosciugamento e regolamento delle acque compiuta dallo Stato – si legge su un giornale dell’epoca – occorreva però seguisse la trasformazione agraria condotta da parte dei vari proprietari. Lo Stato diede inizio ai lavori di bonifica nella primavera del 1928. Fra le bonifiche calabresi con i suoi 32 mila ettari di pianura ed oltre 140 mila ettari di zona montana la Piana di Sibari è la più estesa. Nel comprensorio opera la Società delle Bonifiche del Mezzogiorno; direttore dei lavori è l’ing. Attilio Trettenero, milanese, assistito dai geom. Nello Superchi ed Ermanno Candido friulano. L’intero territorio diventa oggetto d’imponenti lavori. Il fiume Crati ed i torrenti Raganello, San Mauro, Malfrancato, l’Occhio di Lupo, Coriglianeto e Cino che sino ad allora, privi di briglie, hanno scorazzato impunemente nella piana, sono ricondotti nei loro argini; oltre cento milioni di Lire sono spesi per realizzare lavori di arginatura e di canalizzazione delle acque, costruire strade e ponti poderali che consentono ora di attraversarli senza rischiare di sprofondare come i bufali del Lenormant.
Tra i protagonisti di quella storica bonifica della piana vi furono pure i Baroni Compagna di Corigliano e, come vedremo, soprattutto Pietro Compagna.
I Compagna, sebbene da molti anni risiedano in Napoli, hanno mantenuto intatte le proprietà terriere in Calabria, i conci e l’avito castello di Corigliano. In realtà alla fine dell’Ottocento il casato, benché avesse visto il padre diventare senatore del Regno, aveva attraversato un momento difficile a causa di una grave crisi finanziaria ed aveva rischiato di perdere tutto. Era stato poi Guido (13/9/1879-2/3/1925) a risollevare le fortune della famiglia portando il latifondo familiare in Calabria oltre i confini dello storico feudo di Corigliano, acquistando terre nella piana di Cerchiara e a Villapiana. Guido, autentico antesignano nelle opere di bonifica, senza indugio si tuffa a capo fitto nel progetto. Nella primavera del 1924 stringe una solida collaborazione con il gruppo dell’Ing. Natale Prampolini di Ferrara, il grande bonificatore della pianura Padana, che gli assicura esperienza ed il sostegno economico del Credito Italiano2; nasce la “Società Anonima Bonifiche del Mezzogiorno”, ci si appresta a dare avvio ai lavori quando, minato da un male incurabile, Guido muore l’anno dopo. Alla sua morte le terre e l’immenso patrimonio Compagna stimato intorno ai 53.000 milioni di lire passano in mano del fratello Pietro.
Pietro Compagna, o meglio Piero come comunemente è chiamato, ultimo erede maschio del barone Francesco Compagna e di Maria Bianca Gallone di Moliterno, era nato il 27 ottobre 1888 a Napoli3. Sino allora aveva vissuto, per scelte di strategie familiari, un po’ all’ombra del fratello ed ora il destino del casato passava per le sue mani. Piero successe nella conduzione dei lavori di bonifica e nelle eredità di famiglia all’indomani della morte del fratello Guido che, prima della sua morte, lo elesse a suo successore essendo, tra l’altro, padre allora dell’unico erede maschio in casa Compagna4. Ma quelle vaste plaghe che avrebbero fatto invidia a chiunque erano piagate dalla malaria che immarcisciva in stagni pantanosi che corsi d’acqua privi di argini alimentavano senza freno. Lo scenario è desolante; nelle tenute dei Compagna “per centinaia e centinaia di ettari la boscaglia si estendeva selvaggia, pantanosa e malarica su una superficie irregolare ora con vasti e profondi stagni, ora con frane ed erosioni paurose del terreno che fermavano le acque e ne impedivano il corso regolare. Niente strade, pochissime e dirute le case. Tutto era da fare”5.
Sebbene già l’anno successivo alla morte di Guido, nel 1926, Piero sollecitasse al Prampolini l’inizio dei lavori di bonifica, ai quali concorreva con 600 mila lire, si dovettero attendere tuttavia sei anni prima di vederlo mettere mano alle sue terre, la polpa più vasta e ricca della Piana. Pur non avendo esperienza nel condurre un’opera così grande ed ambiziosa, Piero Compagna decise di proseguire l’impresa sperata dal fratello. Le proprietà dei Compagna sono sette e si estendono su un’estensione complessiva di 1500 ettari. La terra comincia a dare lavoro prima ancora di essere coltivata. Incoraggiati dal barone, armati di badile e di chinino, nel 1934 un esercito di centinaia di braccianti si dirige nella piana deciso a riprendersi quei campi. Piero Compagna affida la gestione dell’opera a Teofilo Calvino e a Gaetano Liguori, amministratori di Casa Compagna, mentre assegna la conduzione dei lavori al suo fattore di fiducia. Ogni giorno, alle prime ore dell’alba, un esercito di ben 500 operai invade il latifondo Compagna; quello che si offre ai loro occhi è una boscaglia selvatica ove le acque incontrollate hanno formato acquitrini e scavato stagni larghi e profondi anche diversi metri, luoghi pericolosi non solo per gli animali ma anche per l’uomo. Ma il pericolo maggiore è la malaria; nei ristagni d’acqua sono versati litri di petrolio e il “verde di Parigi” per distruggere le larve della temibile zanzara anofele. Centinaia e centinaia di braccia mettono mano alle zappe ed iniziano a dicioccare le boscaglie, ad estirpare le grosse e secolari ceppaie di tamerici. S’iniziano le opere di livellamento del suolo dei pantani che si estendono a macchia d’olio sino al mare, le bassure e gli stagni profondi “fino a quindici metri” sono colmati con oltre centomila metri cubi di terra trasportata dalle colline dei dintorni, altri sessanta mila sono mossi per scavare canali collettori e fossi. Per ben quattro anni la piana è un vasto cantiere che esige, per il dicioccamento e la sistemazione delle terre, 75 mila giornate di lavoro all’anno. Alla fine dell’anno 1938 i lavori sono conclusi: oltre 600 ettari di terreno sono stati dissodati, creati canali la cui lunghezza complessiva è di oltre 65 chilometri.
Ma Piero Compagna sa che quel lavoro non può dirsi concluso, non basta regolare il flusso delle acque, colmare gli stagni e dissodare i campi per parlare di bonifica, ma occorre creare condizioni e fornire strumenti perché quelle terre siano davvero coltivate. Invero il barone sa che deve lottare soprattutto contro “se stesso”, contro la mentalità locale che vede la conduzione rurale ancora di tipo feudale, dove i proprietari terrieri investono scarsi capitali nella terra e perseguono ancora inaccettabili forme di sfruttamento dei braccianti agricoli. La trasformazione agraria di quelle ampie zone suggerisce invece un modo nuovo di coltivare la terra, l’introduzione di un’agricoltura intensiva. Bisognava però dimostrare che le terre coltivate con il nuovo sistema davano una produzione più elevata e, quindi, un guadagno maggiore per tutti, solo così si poteva “destare nel rurale l’interesse …e affezionarlo al lavoro”. Piero Compagna intuisce che la posta in gioco non è solo realizzare il massimo profitto ma che quella bonifica poteva avere un importante risvolto sociale ed economico. Per farlo doveva scrollarsi l’atavica conduzione feudale che sino allora, nella gestione dei latifondi, aveva visto spesso le persone utilizzate alla stessa stregua delle bestie da lavoro. Occorreva in buona sostanza avere come riferimento soprattutto il benessere collettivo degli affittuari e dei mezzadri, fornendo loro migliori condizioni di lavoro, solo così la bonifica poteva diventare un’opportunità di crescita sociale e morale; del resto sono questi gli anni il cui il socialismo comincia a diffondersi anche nelle campagne e la speranza e l’attesa del riscatto per le masse contadine era forte e sentito.
Pietro Compagna dimostra di saper ben interpretare quel bisogno. Anticipando i moderni sistemi gestionali delle aziende del nord dell’Italia coltiva “fra dirigente e lavoratore quel legame di collaborazione cordiale così necessario se si vuole che il contadino si renda e si senta parte interessata dell’azienda anziché una semplice leva da utilizzare per l’ottenimento di un guadagno a cui lui non partecipa”6. Cuore dell’Azienda Compagna è la contrada Piscopello dove fa costruire case poderali e dormitori per gli operai, stalle per cento capi di bestiame, locali per la lavorazione del latte, ricovero per gli attrezzi ed un silo da foraggio della capacità di trecento metri cubi. Nella tenuta di Pollinara sono eretti fabbricati rurali per gli operai ed una stalla per sessanta capi di bestiame. Anzi egli fece di più. Piero Compagna è una persona semplice, cordiale e molto buona7. Nel primo anno di scasso dei terreni va incontro ai suoi lavoratori “con aiuti di ogni genere”, lascia ai mezzadri la maggior parte del raccolto e si fa carico dei danni che gli allagamenti continuano ancora a procurare ed i contadini contraccambiano il barone con fedeltà ed impegno. Il barone è un uomo buono. Tenendo fede ad una secolare tradizione coriglianese che vuole che nelle ricorrenza della messa in ricordo di un defunto venga offerto ai poveri e a quanti presenti alla cerimonia del pane, per l’anniversario della morte del padre, il barone Francesco, fece distribuire ai poveri della Marina 100 pani e personalmente altri 300 ne diede ai poveri di Corigliano insieme al mille lire in denaro8
Le colture foraggere e cerealicole hanno preso il posto della selvaggia vegetazione palustre e degli arbusti spinosi, gli armenti ora pascolano con la stessa raffinatezza dei loro avi. I campi di grano si alternano a rotazione ai raccolti di granoturco e di leguminose, di barbabietola da zucchero e riso. La politica autarchica impone di provvedere all’autonomia della Nazione, ecco allora che si sperimentano con successo le nuove colture industriali quali il cotone, l’arachide e le canne di bambù da cui si ricava la cellulosa. Le sue tenute, organizzate in maniera funzionale con abitazioni per i coloni, con ricoveri per il bestiame e per gli attrezzi da lavoro, ora sono efficienti aziende agrarie che i massari, sino allora sono rimasti a guardare, osservano con interesse. L’opera compiuta dal Compagna viene definita “audace e grandiosa”, il principale settimanale dell’epoca sui temi dell’agricoltura, “La Domenica dell’Agricoltore”, dedica all’impresa del barone di Corigliano un inserto speciale; per l’impegno, quale esempio da imitare, Piero Compagna viene insignito della Stella d’oro al merito rurale. Quando nel 1938, alla vigilia delle semine, a Corigliano, durante il raduno dei rurali della provincia di Cosenza, in una sala gremitissima, sotto lo sguardo del Prefetto, del Federale e del Segretario del Comitato Permanente del Grano, il barone Compagna incontra il suo vecchio fattore settantenne, gli corre incontro “come se vedesse più che un amico un fratello e, strettolo fra le braccia, lo ha baciato sulle guance”. Il padrone è amico del contadino; alla fine della cerimonia, tra un entusiasmo incontenibile, i coloni sollevano il barone sulle spalle e lo portano “per le strade della cittadina, come in trionfo”9.
L’entrata in guerra dell’Italia e la successiva fine del regime fascista, lasciò incompiuta l’opera di bonifica; ben presto quanto fatto andò in gran parte di nuovo perduto. Si dovrà attendere la fine del conflitto e la nuova Legge sulla riforma agraria (1950) con l’Opera per la Valorizzazione della Sila (O.V.S.), per veder risolvere in maniera definitiva la questione della bonifica della Piana di Sibari modificando la struttura del latifondo con l’assegnazione di poderi ai braccianti10.
Il barone Piero Compagna muore a Napoli l’8 marzo 1965, in tempo per sapere che la sua impresa non era fallita ma consapevole anche che il latifondo più della malaria aveva frenato lo sviluppo di quelle terre. Le acque stagnanti non ci sono più. I terreni sono ora campi arati, arati dalla fatica e bagnati col sudore. La terra argillosa della piana dura come la pietra quando è asciutta, sotto la vanga dell’uomo si spezza, diventa friabile, soffice, i piedi del contadino affondano nella terra per trarne nutrimento.
Durante il periodo fascista furono molti i centri rurali fondati sul territorio nazionale. Si trattava di piccole località poste al centro della suddivisione del territorio agricolo in appezzamenti podarili che facevano parte del più vasto progetto delle cosiddette “bonifiche integrali” che prevedeva la realizzazione di tipologie insediative programmate nel contesto della pianificazione territoriale ed agricola della bonifica.
Questi insediamenti situati nella campagna avevano una modesta estensione territoriale e demografica ed uno specifico carattere rurale. Erano costituiti da edifici rurali posti direttamente sull'appezzamento agricolo assegnato alle famiglie coloniche dove il centro di aggregazione era rappresentato da edifici pubblici (la chiesa, la casa del fascio, l’ambulatorio medico, una scuola) e dai servizi del consorzio agrario, organizzati intorno ad una piazza o ad un’asse viaria. Nella Piana di Sibari, negli anni 1927-1931, videro così la luce le frazioni di Sibari, Turio, il Villaggio Frassa e Cantinella.
1 Cfr. E.Misefari, Le lotte contadine in Calabria nel periodo 1914-1922, Jaca Book, Milano 1972.
2 E.Viteritti, “Corigliano dopo l’Unità d’Italia” in Kratos, anno I, n.1, Editrice Aurora, Corigliano Cal. 2012, p.20. Cfr. anche Leopoldo Fianchetti, “Mezzogiorno e Colonie”, Firenze, “La Nuova Italia”, 1950.
3 L’otto luglio 1920 Pietro Compagna sposa a Napoli Teresa Siciliano dei marchesi di Rende, dai due nacque l’anno dopo l’unico discendente maschio destinato a dare continuità al casato, Francesco (31.07.1921-24.07.1982), studioso, uomo politico ed intellettuale fortemente impegnato per il riscatto del Mezzogiorno (C.Di Martino, I Compagna in “Beni Ambientali, Architettonici e Culturali di un centro minore del Sud". Corigliano Calabro”, a cura di M.Candido, Catanzaro, Abramo, 2002, p.199).
4 Il Popolano, anno XLIII, 21 gennaio 1926, p.2.
5 “La Domenica dell’Agricoltore”, anno XIII, n.50, 11 dicembre 1938, p. 8.
6 Ibidem, pg. 8.
7 F.Perrone Capano, Il duello che non si fece, Il Serratore, anno 10, n.49, p.29, Corigliano C. 1997.
8 Il Popolano, anno XLIII, 21 gennaio 1926, p.2.
9 “La Domenica dell’Agricoltore”, anno XIII, n.50, 11 dicembre 1938, pp.8,9.
10 “La Domenica dell’Agricoltore”, anno XIII, n.50, 11 dicembre 1938, p. 8.