Correva l'anno 1616

  

GIOVAN  BATTISTA  CAPUCCI

L'uomo, il medico, il tempo.  Un medico coriglianese del Seicento 

di Luigi Petrone 

 

Giugno 1616. Un vocìo diffuso percorre le strade della città. Giunge voce infatti che un genovese, dopo il lungo possesso dei Sanseverino, ha acquistato il feudo di Corigliano. Nell'attesa, antiche preoccupazioni e speranze mai sopìte si accompagnano all' arrivo del  forestiero.

Ma la città, un grosso borgo contadino ma dalle ampie risorse economiche, è ad una svolta. Nonostante la grave crisi economica che in maniera epidemica interessa vaste aree della Calabria, Corigliano risulta tra le più popolose ed è in espansione. Da un documento di poco anteriore sappiamo che «...la detta terra cinquanta anni a dietro habitava tutta dentro delle mura di essa, et d'all'hora in poi venendo accresciuto il popolo habita quasi la metà fuora delle dette mura,...». In questi anni gli vengono attribuiti 1452 fuochi e la popolazione residente calcolata intorno alle diecimila anime[1].

In questa città nasceva agli albori del seicento Giovan Battista Capucci, medico, chemiatra e naturalista,  destinato a diventare uno dei più autorevoli esponenti del panorama scientifico meridionale del tempo.

 

La pur copiosa storia della Medicina per lo più tace le vicende ed i nomi di tanti personaggi che, come il nostro, non affatto minori, costituivano quell'intellighenzia che doveva essere poi riconosciuta l'artefice del progresso scientifico dei secoli XVII-XVIII . La vicenda biografica di Capucci, medico, chimico e naturalista, è ancora incerta e lacunosa e avremmo conosciuto ancora di meno se G. Atti non avesse scoperto fortuitamente parte del carteggio del medico bolognese Marcello Malpighi, ricco di molte lettere del nostro[2].

Se infatti  per l'attività di  medico fisico è possibile ricostruire con sufficiente chiarezza i suoi campi d'interesse, più difficile si rivela la conoscenza della sua vita privata. Risevato, alieno alle polemiche, egli concesse poco spazio ai biografi . Giuseppe Mosca studioso attento del Porzio, intimo amico e corrispondente del nostro, poco o nulla ci dice di Capucci [3] e Pier Tommaso Pugliesi, contemporaneo del Capucci, che avrebbe potuto dirci di più,  si è limitato a scrivere solo  «Giovanni Battista Capucci , celebre Medico dè nostri tempi scrisse un Libro Intitolato  Novae Medicorum Londinensium Academiae Fidelis, et accurata narratio» [4].

Fonte indispensabile per lo studio del nostro sono quindi i carteggi intercorsi con Marco Aurelio Severino,  il bolognese Malpighi, alcune opere a stampa e, ma solo in misura minore, alcune fonti archivistiche locali.

Gio. Batta Capucci, o Capucci, nasce a Corigliano il 2 luglio 1612 da Carlo e Auridia Nigra.  Alcuni giorni dopo, il sei dello stesso mese, viene tenuto a battesimo nella Chiesa di Santa Maria della Piazza da Mutio di Dato e Lucia Minio [5]. Ma per i Capucci, Giovan Battista non è il primogenito. Quattro anni prima, il 18 novembre 1609, nella stessa chiesa la giovane coppia aveva infatti battezzato Lucrezia[6] e, poco più di un anno prima del nostro, il 9 gennaio 1611, avevano assistito alla nascita di un secondo figlio, Gio.  Batta  Fran.co[7]. In quegli stessi anni  Orazio Capucci, sposato con Isabella Motta e di certo imparentato con il nostro, nella medesima chiesa  battezza due figlie [8].

Non sappiamo se il casato fosse originario di Corigliano ma è certo che i Capucci vivono in questa città già da diverso tempo[9]. Nel repertorio delle obbligationi - dove è scritta più che altrove la storia dei bisogni e delle ansie di una comunità - si contano vari documenti relativi al padre che, insieme a molti notabili, stabilisce vari impegni di prestito nei confronti della Ducal Corte dei Saluzzo. Carlo Capucci abita probabilmente nel rione detto del Serraturo,  ma non è il solo della sua famiglia ad abitare nella popolosa parrocchia di Santa Maria della Piazza. Nel medesimo rione abitano anche Marco Aurelio e Giovanni Capucci [10].  Don Orazio Capucci fa il Sacerdos e nel 1612 officia nella chiesa di Santa Maria [11] come Don Fran.cus Capucci, che tra il 1649 e il 1650 troviamo nel clero dell' ecc.a S. Maria del Platea[12].  La famiglia del nostro doveva dunque abbastanza agiata, se non altro per far fronte alle spese che doveva comportare lo studiare e il soggiorno a Napoli del giovane Giovanbattista.

 

Il giovane Capucci compie i suoi primi studi a Corigliano, affidato agli insegnamenti di un qualche  parente sacerdote o addirittura presso i  fratres del Convento dei Padri Carmelitani [13].  Si applicò in modo particolare verso le lingue classiche, il latino e il greco (che continuerà a coltivare anche durante gli studi maggiori) e questo ci fa pensare che studiò sotto la guida di un preparato latinista. Di un Capucci letterato non sappiamo molto. Forse, per queste qualità letterarie ancora inesplorate, era apprezzato ancora più di quanto noi sappiamo.  Di certo è che la poesia in latino che il Severino dedica  il giorno della sua laurea al comune amico Gian Giorgio Volkamer, collega di Norimberga, è del nostro. Di qualche anno dopo è un sonetto, forse una composizione in endecasillabi, che Capucci scrive all'amico Andrea Concublet. 

Ma  giovanissimo, appena l'età lo consente è a Napoli dove nello Studium di questa città, probabilmente tra il 1635 e il 1641, compie i suoi studi di medicina.  Segue gli insegnamenti del  medico napoletano Mario Schipano Regni Neapolitani Archiater, e di altri, presso il quale prosegue e conclude gli studi di medicina teorico-pratica. Poco più che ventenne consegue il dottorato in filosofia e medicina[14]. Ma il vero maestro del nostro fu il celebre medico di Tarsia Marco Aurelio Severino  (1580-1656). Insigne medico Severino medica in Napoli all'ospedale degli Incurabili.  Chirurgo di rara abilità, occupa la cattedra di medicina e anatomia; la sua fama è tale che alle sue lezioni accorrevano studenti anche da fuori regno.

Wanda Morabito, che al nostro ha dedicato  un brillante articolo, pensa ad un qualche rapporto di parentela tra Capucci e il Severino che, più grande di circa trent'anni, potrebbe aver avviato il nostro agli studi in medicina.  E' noto come in molti casi i rapporti di parentela favorivano il costituirsi di dinastie di medici in uno o più ristretti casati, e spesso era proprio la successione ereditaria, in una professione dotta come quella medica, che garantiva prestigio e clientela. 

I Capalbo ed i Lumbisano sono solo due delle famiglie cittadine colte dell'epoca. La prima, oriunda di Acri,  nell'arco di alcune generazioni vede annoverare nel casato ben cinque dottori fisici, Ettore, Scipione, Pietro Antonio, Cesare e Francesco Capalbo. Quella dei Capalbo fu un'autentica famiglia togata. Don Cesare "dignissimo Primicerio ac vigilantissimo parocho" resse per la parrocchia di San Giovanni de Fundis [15].

I Lumbisano, medici anche loro, sono ben rappresentati da Muzio e soprattutto da Orazio che arriverà a diventare professore straordinario nell'ateneo partenopeo e che, con i propri scritti, prenderà parte a quel fervore culturale  che caratterizzerà i secoli XVII e XVIII. Forse i Capucci se non proprio una ''famiglia togata'', che pure annovererà più di un sacerdote, appartengono a una di quelle famiglie che nella Corigliano imprenditoriale del Seicento tentano l'ascesa  sociale[16].  Carlo Capucci, negli anni  compresi tra il 1623 e il 1629  contrae una serie di Obbligazioni con i Saluzzo, la Ducal Corte. Analogamente fanno Giuseppe Capucci nel 1636 e Marco Aurelio Capucci nel 1640[17]. Ma non sono i soli i Capucci a contrarre obligationi con il duca.

La lettura degli atti registrati in questi e negli anni successivi, ci dicono che molte delle migliori famiglie di Corigliano, gli  Abenante,  i Cananea,  gli Oriolo, i Morgia, i  de Rose,  i Novello  (de Novellis), i Sollazzo, contraggono obbligazioni verso la Ducal Camera. Ciò può essere utile per comprendere quali fossero i meccanismi finanziari di una trasformazione economica ora caotica ora in espansione che sembra accompagnare e a volte vanificare le aspettative di quel tempo.

 

Ma al di là di una possibile relazione di parentela con il celebre corregionale, verso il quale il nostro si rivela comunque più direttamente debitore, abbiamo modo di ritenere che  i rapporti con il  medico di Tarsia siano stati molto stretti, e non solo sul piano professionale o in riferimento ad alcuni scritti del nostro  (pubblicati in opere del Severino) e delle quali avremo occasione di parlare.

A Napoli, dove attende a completare i suoi studi, ospite nella Certosa di S. Martino [18], Capucci entra definitivamente in contatto con il colto mondo scientifico della città. Attratto dalle teorie magnetiche sostenute dal Severino, secondo il quale era possibile individuare nell'organismo la presenza di simili che reciprocamente si attraggono, inizia una personale ricerca nel mondo della jatrochimica, l'antenata della chimica, che sembra esaurirsi soltanto negli ultimi anni della sua vita. Ma si rivelerà più helmontiano che paracelsiano  rispetto al Severino che, per aver pubblicamente parlato dei meriti del Lutherus medicorum, Paracelso, sarà oggetto di una ingiusta campagna  denigratoria.

Severino fu il vero fondatore dell'anatomia comparata. Nella sua Zootomia democritea spiega attentamente i risultati delle sue osservazioni dimostrando che proprio quegli organi che più tenacemente evevano resistito a ogni confronto presentavano in realtà analogie profonde con le parti anatomiche di molti vertebrati. Ma nonostante i molti meriti sul piano scientifico e terapeutico - sua è la prima tracheotomia della storia per salvare uno sfortunato colpito da difterite -  il tharsiensis è un medico scomodo, intransigente nel pensiero quanto nella parola; ciò gli creerà sospetto e nemici e lo porterà addirittura ad essere coinvolto in un processo dell'Inquisizione.

Ma intanto il nostro va sempre più appassionandosi allo studio della  spagirica  (dal gr. span, separare - le sostanze - e  agéirein, riunire), l'antica scienza chimica intesa come arte che si occupa della composizione e decomposizione delle sostanze. L'interesse per questa materia fu tale che già allora acquisì, tra i contemporanei, fama di velente chimico.

Il crescente interesse per la chimica è dimostrato da alcune esperienze da lui compiute in quegli anni a Napoli  per dimostrare, sulla scorta di Andrea Libavio alchimista (1540-1616), l'affinità tra il veleno della vipera e il mercurio e per verificare l'efficacia di un antidoto  composto di  acqua di vetriolo, radici ed erbe varie[19].  Le sue annotazioni che qualche anno più tardi saranno pubblicate in margine al  Vipera Pythia  del Severino, in parte il risultato di queste esperienze,  denotano la sua naturale propensione verso la spagirica.  Come gran parte dei colti protagonisti di quest'epoca, aveva interessi eclettici. Era medico, chimico, naturalista. Sono di questi anni  alcune importanti  esperienze  sulla respirazione dei pesci condotte dal celebre medico in collaborazione di Capucci all'ombra della Certosa di San Martino a Napoli[20].  E' il Severino stesso che ce ne dà notizia. Nella  comprobata spiratio in lampetris, ci fa sapere che  « Nos coniectis in vas nunc planius, nunc elatius mustelis quocumque delegerimus tempore, potissimè verò per aestatem, anhelitum hunc serpularum branchiatarum observavimus  cum sagacissimo collega nostro Ioanne Baptista Capucci in D. Martini Carthusia Neapolitana. quod cuiuis etiam observare licebit in Uranoscopo, qui calentissima anni parte fuerit pridem eductus ex aquis.»[21]. Queste esperienze  segneranno profondamente la sfera degli interessi che più  intimamente  in questi anni giovanili attrassero il nostro. E sono proprio queste affinità che porteranno ad una collaborazione  sempre più intensa col Severino.

I rapporti con il giovane collega coriglianese non erano gli unici. Severino fu in contatto con altri due noti medici di Corigliano, Ettore  Capalbo  ed  Orazio Lumbisano [22]. Certo è che il Seicento è un secolo importante per questa città che annovera, nell'arco di un secolo, almeno tredici dottori physici. La cronaca di questo periodo è ancora avara di notizie, diversi nomi sono giunti a noi, ma ben tre medici conquistarono fama e notorietà.  

Hectorem  Capalbus, nato a Corigliano  tra la fine del Cinquecento e l'inizio del successivo, fu autore di due importanti studi,  il De respiratione Piscium e il  De Motu Cordis  pubbicati  nel “De Respiratione Animalium''  del Severino.

Il Lumbisano, professore straordinario della facoltà di medicina in Regijs Neap. studijs, medico famosissimo nella Corigliano suo tempo, diede invece alle stampe tre opere: il De  febribus  (De feb. Lib.III. In quibus de earundem essentia signis Prognostico,  &  Curatione agit. Amplius de peste feb. pest. Curat. & praecaut.), un lungo trattato sulle origini e le cure delle febbri  pubblicato a Napoli nel 1629 (nella quale raccolse l'esperienza personale in fatto di febbri), il  De Terraemotu, prout pestis causa est e le Conciliationes et Decisiones Mediceae in vagantem censuram Rosselli, in censuram Sanctorelli,  entrambi pubblicati nel 1630 sempre a Napoli. Del Lumbisano non sappiamo con certezza la data della sua nascita (ma è comunque situabile tra il 1580 e il 1590). Sappiamo invece che era nato a Crosìa e che si trasferì presto a Corigliano dove il 19 aprile 1618   gli nacque il figlio Carlo Nardo.  

 

Ma Marco Aurelio Severino, sullo scorcio del sedicesimo secolo che vede la Calabria Citra occupare una posizione di primo piano nella geografia scientifica del tempo, è solo il personaggio di maggior spicco.  Esiste un continuum tra il Severino e altri  celebri colleghi, Capucci,  Tomaso Cornelio, cosentino, e Carlo Musitano di Castrovillari (sacerdote con scarsa vocazione che preferisce fare il medico). I membri di questa  scuola cratense non hanno in comune solo una medesima provenienza  geografica ma soprattutto il metodo e il fine,  da promuovere attraverso la libera indagine. 

Quando nel 1650 Tomaso Cornelio (1614-1684) fa ritorno a Napoli con il suo bagaglio fatto di libri di  Galileo, Gassendi, Cartesio, Harvey e Boyle,  con il proposito di rinnovare la cultura scientifica meridionale, si ricollegava a «quella tradizione scientifico-sperimentale che a Napoli si può far risalire alle osservazioni empiriche dei fenomeni fisiologici e patologici di Marco Aurelio Severino»[23] . Ma il medico  e matematico cosentino non porta con se solo libri; porta innanzitutto il metodo sperimentale, il metodo deduttivo matematico, una  ''nuova scienza''. Ma è anche una  renovatio hominis a permettere la nuova scienza.  E questo sarà il suo programma  scientifico, il motivo ispiratore dei suoi  Progymnasmata e dell' accademia che di lì a poco intorno a lui  coagulerà. E saranno proprio il Cornelio e il Capucci , insieme a Lucantonio Porzio, Lionardo di Capua e Francesco D'Andrea,  che daranno vita a Napoli all' Accademia degli Investiganti nel 1650.

La  Napoli di quelli anni,  centro indiscusso di cultura, non è solo una capitale di un grande regno ma è anche una città europea ricca di idee e di dotte personalità dove vivono ed operano studiosi e scienziati (provenienti da ogni parte del regno e da molte città d'oltralpe) che, seppure con esiti diversi e in discipline differenti, daranno prova del loro ingegno.  In questa città,  in questo clima culturale, introdotto negli ambienti scientifici dal Severino, il nostro stringe amicizia con diverse illustri colleghi. Di questi anni è la conoscenza  con Thomas Bartholin (Copenhagen, 1616-1680), anatomista danese, che soggiorna e collabora per un breve periodo nel capoluogo partenopeo con il Severino, prima di partire per Padova (1641) e con il medico tedesco Giorgio Volkamer. Tra i suoi illustri amici vi è Andrea Concublet, marchese di Arena (che grandi meriti avrà nel favorire la ricostituzione dell' Accademia degli Investiganti) per il quale il nostro,  cavato  di mano,  scrive  un «sonetto quale mando a V.S. per Arena, stimando che lo gradirà per la memoria del P. Campanella suo maestro...» [24] .

Ma mano che i rapporti e gli interessi con l'ambiente napoletano si fanno più stretti i suoi soggiorni a Corigliano si fanno sempre più brevi, è un Capucci che sempre più di rado fa ritorno a casa. Forse consapevole delle sue lunghe assenze si mostra preoccupato del giudizio di chi lo sollecita e lo vorrebbe più spesso in Calabria, come si legge in una lettera del marzo 1643, scritta da Corigliano e inviata al Severino,  che «non fosse almeno piacciuto di rifarmi veder Calabria sull'anno passato, forsi non farei caso hora di incorrere nel concetto di leggierezza appresso le genti...»[25].  Dal 1642 sino al mese di marzo del 1643 rimane tuttavia per circa un anno e mezzo a Corigliano. Dopo questa data forse mai più rimarrà per così lungo tempo in questa città.  Alla fine di marzo di quello stesso anno infatti, nuovamente in viaggio, lo ritroviamo di nuovo a Napoli.  La permanenza nella città partenopea questa volta è meno lunga del solito perchè il 2 ottobre 1645 lascia Napoli alla volta di Santa Severina.  Ma sembra una decisione presa in tutta fretta perchè, passato a salutare il Severino, non avendolo trovato in casa (abita nei pressi della Chiesa dello Spirito Santo) [26], consegna per lui una lettera: «Molto illustre et Eccellentissimo Signore mio Osservandissimo,  - scrive Capucci -  Io non hebbi  fortuna di trovar V.S. in casa quell'ultima mattina nella quale si dié prencipio al mio viaggio da Napoli, perchè speravo ricever gl'ultimi honori de suoi commandamenti e partir piu' animoso, rinvigorito dallo spirito della Sua grazia. Mi manca eziandio la buona sorte questa sera, perchè persuadendomi di haver tempo di scriverli a lungo, a pena mi si concede ... questi due mal composti righi....Se fussero arrivate in Napoli le sue stampe  si ricordi... inviarle con la posta con soprascritta Cosenza per S.ta Severina in casa di Monsignor Arcivescovo...»[27].

Per essere una decisione presa in fretta, Capucci rimarrà al servizio dell'arcivescovo severinate per ben  dieci anni.    L' arcivescovo di Santa Severina è Fausto Caffarelli,  romano,  appena rientrato nella sua diocesi dopo essersi trattenuto per un settennio in Savoia in qualità di nunzio pontificio[28]. Singolare figura di vescovo,  Caffarelli  si diletta di  esperimenti intorno al fuoco  (vulcania facultate delectari), come ci fa sapere il Severino in una lettera del 13 ottobre 1645 inviata a Giorgio  Volkamer[29].  Forse perchè egli gli offre protezione e la sicurezza economica di un incarico continuo, Capucci trascorrerà circa un decennio in questa cittadina del Marchesato. Ma qui egli trova certamente un  laboratorio, la possibilità di  mettere a punto le sue osservazioni spagiriche nell'arcano ed esoterico studiolo dell'arcivescovo che, come lui, si interessa di studi  spagirico-chimici.       

Di certo però  il soggiorno in questa città è discontinuo, interrotto più volte con frequenti viaggi a Corigliano e a Napoli. Lo  stesso  Caffarelli, alla fine del 1645, si allontana perchè a dicembre di quello stesso anno è a Rossano, ma è diretto oltre, dove celebra i funerali dell'arcivescovo  Pietro Antonio Spinelli[30]. La collaborazione con questo dura tuttavia a lungo. Sono anni certamente interessanti. Purtroppo i rari documenti e le ancora più rare lettere del nostro di questi anni, tacciono sull'attività svolta a Santa Severina.

Senza l'ausilio di documentazione anche la biografia si fa lacunosa e reticente. Quello che più sorprende è che, poco dopo l'arrivo a Santa Severina, nonostante l'avvicinarsi a Corigliano, i rapporti di Capucci con questa città paiono ridursi notevolmente per interrompersi poi del tutto. Cosa può essere accaduto?  Abbiamo modo di pensare che questa sorta di volontario esilio sia da attribuire ad una sua partecipazione al  moto rivoluzionario  di Corigliano  nel 1647.  Se così fosse, il difficile accordo  tra  princìpi culturali e idee politiche troverebbe ulteriori conferme, e l'isolamento  e la vicenda del nostro altro non sarebbero che un destino condiviso con altri intellettuali  meridionali sotto il regime spagnolo. 

Il movimento popolare che il 7 luglio di quell'anno, espressione di malumori a lungo repressi,  aveva avuto inizio a Napoli con la nota rivolta di Masaniello, non tardò ad estendersi alle altre province del regno.  Profonde ripercussioni si verificarono anche a Corigliano dove, in opposizione al partito reazionario fedele al Vicerè  duca d'Arcos (che vedeva in Agostino Saluzzo il più risoluto difensore), si era costituito un movimento ostile agli spagnoli che vedeva in Orazio Abenante,  Giorgio Macrì e il fisico Titta [Giovan Battista] Cappuccio gli esponenti di rilievo[31]. Giacomo Saluzzo, padre di Agostino,  preoccupato dal malumore che serpeggiava tra la gente e «dai rumori popolari e dalle continue ribellioni  che in quei tempi si teneano»[32],  aveva  chiesto e ottenuto in quello stesso anno  dalla Regia  Corte la concessione di tenere nel castello un corpo di artiglieria. I suoi timori  erano tuttaltro che infondati se l'anno successivo, nel 1648, Marcello Tosardo, rappresentante a Terranova di Enrico di Lorena, il Duca di Guisa,  dopo aver saccheggiato il Palazzo del Principe di Tarsia, tentò senza esito di assediare il suo castello di Corigliano[33].  I momenti più drammatici si verificarono tuttavia quando il Duca di Laurito, Giovan Battista Monforte, Governatore alle Armi della Provincia giunse a Corigliano. Oscuro della rivolta in atto in città, che riteneva sottocontrollo per la presenza delle truppe che lui stesso aveva ordinato di concentrarsi per sedare i tumulti scoppiati nelle località vicine, venne invece sorpreso nei pressi del convento dei Carmelitani da uomini arnati e costretto a riparare nel vicino borgo rurale di San Mauro. Solo l'arrivo da Cosenza di mille uomini reclutati alla bisogna e il saccheggio che ne seguì, spargendo terrore nel territorio e nella città, indussero alla resa i rivoltosi [34]. Il popolo disorientato e da sempre preoccupato da problemi di sostentamento quotidiano, non riuscì a comprendere pienamente cosa stesse succedendo e i pochi intellettuali che sollecitano un cambiamento nulla poterono contro l'esito delle cose. 

Mentre nella capitale il sistema autoritario del Vicerè ristabiliva lo  statu quo  e il Duca di Guisa finiva imprigionato, a Corigliano Agostino Saluzzo per la sua fedeltà alla causa spagnola e per  la strenua resistenza opposta ai rivoltosi, veniva insignito il 18 maggio 1649 da Filippo IV d'Asburgo del titolo di  ''Dux  fidelissimus'', duca di Corigliano, e vedeva confermati i suoi poteri ed i suoi possedimenti [35]. Fino ad allora Corigliano era stata Contea. Con la concessione di questi nuovi privilegi Agostino Saluzzo diventava Duca di Corigliano e Principe di San Marco.

Di lì a poco, il 22 giugno di quello stesso anno, l'insurrezione antispagnola nel regno si poteva considerare conclusa.

Tra i coriglianesi  che presero parte alle agitazioni contro il malgoverno spagnolo compare, abbiamo visto, il fisico Titta Cappuccio, un medico fisico dunque e di nome  Giambattista  (Titta ne è il diminuitivo).  Il nome, la professione e gli anni in cui si svolsero i fatti ci inducono a ritenere che  Titta Cappuccio e il  nostro siano la medesima persona.  Capucci è  all'epoca dei disordini a Santa Severina, ma sappiamo che «non sta  mai fermo e si trova a Corigliano, ora a Santa Severina »[36]  non molto distante dalla cittadina della Sibaritide. 

Capucci trascorrendo molti anni a Napoli aveva avuto modo di assistere in maniera diretta al disagio e al malcontento della gente, una realtà che non poteva lasciarlo indifferente. A Corigliano, dove le condizioni non potevano essere molto diverse, Capucci non era il solo a nutrire sentimenti antispagnoli. Girolamo Garopoli (1605 ca-1678), arciprete di Santa Maria della Piazza nel 1645, letterato e poeta, per i suoi dichiarati sentimenti  antispagnoli, anche se non si espose direttamente, all' indomani dei disordini popolari nel 1650  sarà costretto a riparare a Roma  dove si spense  nel 1678 senza aver potuto più fare ritorno a Corigliano.

Un destino analogo, comune ad altri intellettuali che avevano partecipato ai moti, dovette riguardare il nostro e la cui probabile partecipazione ai tumulti creò non qualche disagio ai familiari che vivevano a Corigliano. Pobbiamo pensare che in tempi particolarmente difficili il nostro abbia ritenuto opportuno tenersi lontano da questa città. Sta di fatto che proprio dopo gli anni  a ridosso del 1648  Capucci non è più documentato a Corigliano, e pur continuando a vivere in Calabria  (dopo il lungo soggiorno a Santa Severina  andrà a vivere definitivamente a Crotone dove concluderà i suoi anni), pare che non abbia mai fatto più ritorno nella sua città di origine dove pure aveva parenti ed amici. Nel carteggio degli anni che seguirono non c'è mai un cenno o un riferimento  a Corigliano, quasi ad obliarne il ricordo. 

Anche se lontano, il prestigio personale derivante dalla sua professione gli aveva conservato i contatti e le importanti amicizie con le migliori famiglie di Corigliano.  Conferma questo dato la lettura di un'atto di battesimo del 23 agosto 1658. Quando egli verrà invitato da Thome Grisafi di Corigliano a fare da padrino a suo figlio prossimo alla nascita, Capucci con una procura  del il 23 agosto di quell'anno da Napoli  delega un  Fipino  (Filippino) Cosentino  affinché scelga il nome da imporre al nascituro, adempia a tutte le formalità richieste alla persona del padrino e tenga a battesimo  il  figlio che nascerà da  Margharita Noe moglie del Grisafi[37]

 

Ma meno preoccupato del clima ancora difficile che si respirava nel capoluogo partenopeo, all'indomani del fallito moto coriglianese  il nostro è nuovamente a Napoli nel 1650. E Napoli nonostante i grandi problemi politici sta attraversando un periodo di grande fervore e vitalità culturale.

La lunga amicizia e collaborazione fra Tomaso Cornelio, Luca Tozzi, Lucantonio Porzio, Lionardo di Capua, Francesco D'Andrea e Giovan Battista Capucci, promossa dall' incendio della curiosità, nel 1650 dà vita nel capoluogo partenopeo all' Accademia degli Investiganti. Le aspirazioni del sodalizio napoletano, che sono le stesse che ispireranno qualche anno dopo la contemporanea accademia fiorentina del Cimento (1657), saranno quelle di investigare l'ancora inesplorato mondo delle scienze. Qui, lontano dal dogmatismo degli aristotelici (che non mancheranno a loro volta di costituire una propria accademia, quella  dei Discordanti ) e dallo sguardo inquisitorio della Napoli del tempo che avrebbe obbligato a leggervi e commentare l'ormai obsoleto Corpus dei testi ippocratico-galenici, era possibile discutere liberamente, e senza condizionamenti, sulle materie più complesse e delicate. Determinante si rivelerà la felice circostanza che, in un ambiente sensibile alle innovazioni, permise ad un gruppo straordinario di ingegni e studiosi (che andavano preconizzando un'evoluzione della scienza in senso pienamente critico e sperimentale) di ritrovarsi  raccolto in un'accademia[38].

Capucci sembra trovarsi a suo agio. Tenuto in gran considerazione, i suoi interventi sulle  quaestiones scientifiche più  dibattute sono sempre oggetto di notevole interesse e, a detta del Porzio, «praeter multas literas ed amicos, et quod non pauci amicorum honorifice eiusdem meminisse voluerunt, in scriptis suis, vix aliquid exstat quod suam...» [39].  Una delle questioni allora molto dibattute era quella  del  caldo e del freddo,  del  raro e del  denso[40].  Discutendo di questi concetti egli, seguendo un metodo personale e diverso, mostrava come fossero concetti equivoci. Nelle sue Dissertationes  variae,  che in parte contengono  sintesi  delle relazioni che si tenevano in seno all' Accademia,  il Porzio  ci fa sapere che, in riferimento al problema del caldo e del freddo,  Capucci  riteneva che  «conceptum frigidi sive frigoris, sive frigiditatis non includere conceptum densi sive densitatis; et e converso conceptum densi sive densitatis non includere conceptum frigidi; unde nihil est, quod possumus habere unum abque alio »[41].  Parlando del caldo,  dire che un oggetto è caldo o freddo implica sempre un riferimento al senso[42], e ciò equivale a dire che '' il calore  è una sensazione.''  «Per convincere i suoi uditori del fatto che i concetti di raro e denso sono in stretto rapporto allo spazio in cui i nostri sensi colgono gli oggetti  - se lo spazio è ampio, diciamo un oggetto raro, denso se lo spazio è angusto - egli si serve dei versi virgiliani:  ' Adparent rari nantes in gurgite vasto ' . Se i nuotatori, egli afferma, fossero più vicini l'uno all'altro, con una minor quantità di mare fra di loro, sarebbero più densi. Per cogliere il concetto di raro, non è necessario ricorrere al freddo e al caldo, bensì pensare che le parti di un oggetto rarefatto più o meno si avvicinano o si allontanano le une dalle altre»[43]. Indipendentemenete dalle definizioni comunemente accettate, per smentire l'affermazione che la condensazione è propria del freddo, il nostro dimostrerà che il freddo talvolta può rarefare, e che viceversa  talora è il caldo  che può condensare.

Conclusasi nel frattempo la lunga parentesi santaseverinese, probabilmente con la fine del vescovato del Caffarelli,  Capucci matura l'idea di fare ritorno stabilmente a Napoli.  Ma forse non è ancora giunto quando nel 1656  in città infuria la terribile epidemia di peste che porta via, fra tanti, l'amico e maestro  Severino Professoris Primarii che, incaricato di studiarne le cause, contagiato  egli stesso ne muore il 4 luglio 1656  nella città che lo aveva visto celebre. Significativo è il ricordo che ne fa alcuni anni dopo, nel 1659, Giovanni Alberto Tarino, libraio-editore napoletano, nella prefazione di  Antiperipatias, opera postuma del Severino, quando scrive «sic vivit, sic moritur Severini, si moritur, qui in Literatorum Orbe perpetuò vivit».

E questa è l'ultima notizia del Severino. Le tumulazioni frettolose o in comune di quei terribili infiniti mesi di pestilenzia impedirono che allo scienziato calabrese fosse destinata più degna sepoltura e invano i suoi amici, cessata la pandemìa, ne cercheranno il sepolcro come ricorda mestamente, sempre il Tarino,  «Eius Cadaver proh dolor, proh dedecus sine lapide, sine titulo, prout calamitosissima tempora illa ferebant in D. Blasij aedicula in Bibliopolarum foro reponitur»[44].

L'epidemia si diffonde sia pure in maniera disomogenea, in molti luoghi della Calabria dove il morbo giunge l'anno successivo, nella primavera del 1657, a causa del quale «...nella maggior parte dei casali di detta città [Cosenza], alcuni dé quali [sono] rimasti desolati di gente»[45].

Nel 1657 le riunioni degli Investiganti diventano sempre più rare e di fatto l'accademia venne disciolta.  Ciò tuttavia, non impedirà che di lì a poco, ritornato il Cornelio a Napoli, si riprendesse la consuetudine di ritrovarsi in casa di questi insieme a Leonardo di Capua, il Capucci, Porzio e i due fratelli D'Andrea[46]. Continuarono a ritrovarsi con questa consuetudine sino al 1662 quando, sotto la protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena, l'Accademia viene ricostituita. Il  Concublet  liberissimo ospite, è amico e protettore di  letterati, medici e  studiosi. Nulla di più naturale quindi che la sua abitazione,  già  luogo di riferimento per i nostri, diventi anche sede di una accademia di grande respiro scientifico.  La nuova accademia accoglie ora un numero più ampio di adesioni tra i quali, oltre a Gio. Alfonso Borelli, Daniele Spinola e il gesuita Pietro Lizzardi, dobbiamo ricordare Sebastiano Bartoli, il vescovo Juan Caramuel (Juan Caramuel de Lobkowits (106-1682) monaco cistercense originario di Madrid), Carlo Buragna, Domenico Scutari, Camillo Pellegrini, Tommaso Cioffi e altri.  In seno a questa, nelle sale del palazzo del marchese,  dove gli investiganti, tra gli intervalli della pratica quotidiana sono soliti ritrovarsi, vengono tenute seguitissime dissertazioni sulle controversie allora più discusse e studi  di notevole spessore sperimentale.

  

A Napoli Capucci si trovò bene, vi dimorò a lungo e qui aveva ancora molti amici. E' ancora in questa città nell'agosto del 1658 poi, forse già dopo il 1662,  egli  prende la decisione di ritornare in Calabria ma non a Corigliano dove, le malevolenze forse sopite gli avrebbero consentito di fare rientro, ma a Crotone.

Quali siano state le motivazioni a portarlo in questa città non ci è dato ancora di saperle e può destare stupore la scelta del nostro.  Forse  gli insistenti inviti di amici che aveva conosciuto durante il soggiorno a Santa Severina o le mutate condizioni dell'ambiente napoletano (sebbene a Napoli tornerà ancora),  possono in parte spiegare questa decisione. Alcuni  anni più tardi infatti, a causa dei forti dissensi tra i membri investiganti e Carlo Pignatato, capofila dell'Accademia dei Discordanti, per intervento del vicerè e del Collaterale [47]  nel 1668 l'accademia dei nostri verrà risciolta[48].  Di certo il proposito di stabilirsi di nuovo in Calabria non deve essere stato una scelta facile se, a cinquant'anni, dopo aver vissuto per anni senza una stabile dimora, matura l'idea di andare a vivere per sempre a Crotone.  Iniziava  per il  medico coriglianese un nuovo periodo della sua vita.       

 

 

Questi anni a Crotone  restano tuttavia avvolti in una certa oscurità.  Di sicuro Capucci non si ritirava in Calabria con l'intenzione di non esercitare più l'attività di medico perchè sappiamo, continua a medicare[49]

A cinquantaquattro anni, senza aver  preso ancora  moglie, quasi a sottrarsi da una sorta di isolamento che il risiedere a Crotone avrebbe comportato - sono «un povero curioso confinato in questo estremo d'Italia» scriverà qualche anno  dopo - la corrispondenza con colleghi e amici si fa più continua.  I rapporti con Napoli, dove sia pure ininterrottamente  aveva esercitato per diciotto anni,  non furono mai  interrotti. Qui era ancora in contatto con gli amici dell'ambiente Investigante con Di Capua, Porzio e col Cornelio, col quale di rado ha però «...commercio di lettere, perche s'infastidisce di facile» - leggiamo in una lettera di alcuni anni più tardi- senza che per questo i rapporti furono meno buoni. A Catanzaro, dove pure qualche volta  si reca, consolida l'amicizia con Giovanni Battista Abbate collega ed amico e, a Messina, con Domenico Catalano lettore di medicina in quell' università.

In una lettera di Capucci del 4 aprile del 1666 leggiamo che «Fra gl'altri favori, che hò ricevuto dalla generosissima humanità  del Sr. Visconte di Francavilla, io annovero per singulare questo d'haverme introdotto nella conoscenza, e grazia di V. S., dà chi l'oscurità del mio essere sarebbe per ricever lustro notabile...»[50]. La lettera, inviata «nello studio di Bologna», è scritta al collega Marcello Malpighi (1628-1694) che  proprio in quell'anno, dopo aver ottenuto da parte del Senato messinese il rinnovo della cattedra di medicina teorica nello Studium di questa città, inaspettatamente  faceva ritorno a Bologna[51]. Dal tono di questa si comprende subito che non era inviata ad un collega qualsiasi.  Con questa lettera, la prima di un interessante carteggio, Capucci avviava una fitta corrispondenza che doveva durare oltre quindici anni.

Il Visconte di Francavilla, il colto uomo di lettere che nel 1662 aveva favorito la conoscenza  del nostro col Malpighi - che si era fermato a Napoli sulla via per Messina - è Jacopo Ruffo [52]. Ma i due avevano avuto modo di conoscersi meglio e, forse frequentarsi per un breve periodo, in occasione di un episodio accaduto nel 1664.

A Messina, le gelosie personali e le invidie da parte dei medici galenisti del luogo, avevano finito per creare al bolognese un ambiente polemico del tutto simile a quello che aveva lasciato a Bologna.  Michele Lipari, un medico che ambiva alla  carica di magistrato (era tra questi che veniva eletto il Protomedico della città), nella disputa che  avrebbe dovuto sostenere con gli avversari, com'era in uso a Messina, scelse come terreno di discussione un confronto tra se stesso, medico galenico, e due medici iatromeccanici, Malpighi e Catalano. I chiari intenti provocatori del Lipari  - intimo amico di Francesco Avellini che aveva invano aspirato ad occupare la cattedra poi assegnata al bolognese - che intendeva ricavare da questa disputa solo della pubblicità, non sfuggì ai due che volutamente ritennero più opportuno sottrarsi al confronto che si preannunciava polemico. Ma il mancato dibattito finì per facilitare l'intento del Lipari che ritennendosi vincitore non si attardava a pubblicare un libello ''pieno di ironia sull'ignominiosa ritirata dei duè', dal titolo ‘Galenistarum  triumphus' [53] (Cosenza, 1665). Ma l'avversione di Lipari ed Avellini andava oltre le ragioni mediche, era soprattutto un conflitto d'interessi, la reazione di chi non ammetteva ingerenze nei ''loro domini''.  Il libretto suscitò un interesse e una diffusione inaspettata. Malpighi e Catalano loro malgrado finirono per trovarsi in una situazione di notevole imbarazzo.

A difendere questi dai maligni attacchi dei galenisti messinesi si leva il giudizio e la presa di posizione del medico coriglianese che non esita a definire i due messinesi  «...idolatri dell'antichità incaparbiti nelle loro ignoranze,...» [54]. Forse animato dai consigli del più anziano collega ed amico calabrese, la reazione di Malpighi non si lascia attendere  perchè in otto giorni pone mano alla penna e prepara  una risposta  al pamphlet  del Lipari (ma in realtà dell'Avellini, ritenuto il vero autore dello scritto). Prima  di darla alle stampe invia copia di questa per un parere, a Giovanni Alfonso Borelli e a Capucci.  La risposta troverà l'incondizionato consenso del nostro per il quale «...quelle frascherie trionfanti altro [non meriterebbero] che la lingua del fuoco ad esaminarle, [...] ond'io dico, che lo scritto di V. S. altro di mal non hà, sè no' che è corto bastone per una arroganza cotanto lunga»[55].

Ma il 1666 fu un anno più importante dei precedenti. Giuseppe Donzelli, rinomato medico e chimico napoletano,  dà alle stampe in quell'anno il suo  atteso Teatro Farmaceutico Dogmatico e Spagirico - un trattato di farmacopea nel quale scriveva della preparazione dei farmaci e del loro uso nelle varie malattie - e lo dedica a Capucci.    Nella  dedica al nostro,  «che io riconosco per mio principal Signore, non meno per la grandezza dè suoi meriti»,  in una lunga prefazione,  Donzelli scriveva che «... mi sono indotto à volere arricchire, per quanto potrò, di medicamenti Spagirici, questo mio Teatro [...]. Non sarà gran fatto, che da questa assertione  nasca qualche mormoratione nell' amareggiante bocca di quelli, che stimano non essere conveniente al decoro del Medico, comporre i medicamenti con le proprie mani »[56].  La dedica a lui non è soltanto il segno di un' immutata attenzione e stima nei suoi confronti,  ma è anche il bellissimo omaggio a Capucci per tanti anni apprezzato teriacopeo della Certosa di San Martino [57]

Nello stesso anno, rinnovando l'amicizia con Sebastiano Bartoli (1629-1676), Capucci cura la sua Artis medicae dogmatum communiter receptorum examen in decem exercitationes paradoxicas distinctum preceduta in apertura da una sua epistola.

La stampa delle Artis medicae reca Venezia, ma il reale luogo di pubblicazione fu probabilmente  Napoli. Quest' opera infatti, era apparsa qualche anno prima nel 1663 con il titolo di Astronomiae Microcosmicae Systema Novum  (ma già il Bartoli aveva dedicato al Doctissimum virum Ioannem Baptistam Cappucium Philosophum, ac Medicum accuratissimun, la ''Exercitatio Paradoxica 4'' dell' Astronomiae), ma per il suo attacco alla medicina scolastica venne giudicata blasfema e quasi tutte le copie che erano state stampate furono sequestrate e distrutte[58]

Da questa serie di dediche e collaborazioni si capisce che Capucci, ''il medico piu' stimato'' dell'Accademia degli Investiganti, era rimasto in stretti rapporti con l'animoso gruppo dell'ambiente napoletano. Alcuni anni prima, nel 1661, Tomaso Cornelio a lui e al di Capua aveva dedicato il quinto dei suoi  Progymnasmata  Physica, il ''de Generatione Hominis'' [59].  

 

Verso la fine del 1666 si manifestano i primi episodi di quello che per lui sarà un angoscioso malanno. Una specie di  «febre sincopale, deliquij e svenimenti di cuore» accompagnano  Capucci negli ultimi mesi di quest'anno. Ma è un male cieco e bizzarro dal quadro polimorfo in cui a preoccupanti episodi sincopali, ai deliquij e agli svenimenti  si aggiungono vomiti atrabilarij, il nero umore secreto dalla bile che infonde la malinconia[60]. E' un Capucci sofferente, forse ulceroso, dispeptico, prostrato da un male oscuro in cui sembrano  prevalere i sintomi di una compromissione cardiaca. Quantunque lui lo prescriva non sembra voler ricorrere al salasso e trova nella dieta, che cura  in modo attento evitando gli abusi e le abbondanti libagioni (la crapola), il miglior rimedio ai suoi mali.  Anche il vino, il prodigioso liquido  la cui anima - l'acqua vitae - pur sembra ridonare la sanità agli ammalati e vigore ai convalescenti, non trova posto sulla sua tavola. « Io hò lasciato il vino dà cinque anni in quà, - scriverà  qualche anno più tardi - e con tal uso hò in parte rimediato all'hipocondriaca [ai disturbi addominali], mà mi resta poi da fare quando non osservo le regole della dieta esattamente.» [61]. Poi, forse già all'inizio del nuovo anno, il graduale ritorno alla normalità. «Hor che è  piacciuto à Dio di rimetterme dopo 50. giorni d'infermità nella primiera salute, [...] - cosè scrive all'amico di Bologna il 21 gennaio 1667 - Son risorto, et à braccio, et à forze della sola natura, la quale in un mal cieco, e bizzarro hà saputo destramente sfuggire i mali passi, e condurme in salvo, non havendo ricevuto dalla nostra arte altro soccorso, che dalla Dieta [...]. Et invero - prosegue - non è parte in mè, che piu' spesso, e piu' gravemente s'ammali, che lo stomaco, ancorchè io, e co'l non pigliar moglie, e con lo schifar la pienezza, e la crapola habbi procurato, e procuri sempre di non metter à cimento la di esso natia debolezza.»[62]. Ma la natura complessa dei suoi malanni sfuggirà a Malpighi e a lui stesso.

Nonostante l'attenta descrizione dei  sintomi, sconosciuta rimane la natura di questo suo male. Qualcuno ha suggerito una prolungata esposizione a fumi e a inalazioni tossiche. Nella scrittura sono impegnate come è noto aree cerebrali che presiedono alla scrittura. Se, come accade nell'intossicazione cronica, in queste zone si verificano delle alterazioni la scrittura è in grado di rilevarle. Ma nella corrispondenza del nostro non si rilevano anomalie della grafìa che, anche in quella degli ultimi anni, rimane chiara e lineare. Ma la mente pare proprio risparmiata da questi malanni.

Nel 1667 Capucci viene a conoscenza di un malinteso che sembrava portare Malpighi ad allontanarsi dal comune amico Gio Alfonso Borelli; è indubbio che qualcosa sta raffreddando i rapporti tra i due suoi amici. Malpighi aveva saputo, in mal modo da uno scritto di Donato Rossetti (Antignome), di commenti non lusinghieri espressi sulla sua persona dal Borelli. Tutto era successo quando, nella prefazione al suo libro, il Rossetti rivolgendosi a Lorenzo Bellini e a Borelli, aveva scritto che il bolognese, forse senza troppi indugi, si era affrettato a divulgare la scoperta delle papille dermiche come gli organi del tatto, senza aver prima verificato la loro reale funzione. L' osservazione fu ritenuta offensiva da  Malpighi che reputò il Borelli come l'ideatore dell'affermazione del Rossetti [63]. I fatti poi dimostrarono che il bolgnese aveva mal interpretato, ma un'antica e importante amicizia intanto stava per concludersi malamente. L'autorevolezza ed i buoni propositi di un Capucci giudizioso si riveleranno determinanti quando opportuni nell'evitare che l'equivoco tra i due eminenti studiosi si trasformasse in una rottura insanabile. Il 29 novembre 1668 il nostro, che è sempre in contatto con Malpighi, gli scrive per «...distorlo dall' apprensioni già fatte, ch'il S. Borelli habbia havuto parte nelle fantasie del S. Rossetti, ò concertato con esso cosa alcuna delle stampate dà lui, [...] et ubligar la sua bontà à rimettersi nella primiera corrispondenza co'l suo amico ».  E, ad un inusuale quanto suscettibile Malpighi,  aggiunge che bisognava comunque accettare  il giudizio degli altri, e  «...ch'ell'istessa in piu' luochi de suoi dottissimi libri hà consigliato intorno alla libertà del filosofare, [...].La bella libertà piaccia sigr. mio anche negl'altri fuor di noi, e non ci renda odioso chi la professa » [64]. E Malpighi accettò il suo consiglio.

L'anno successivo, il 15 luglio 1669, Malpighi scrive ad Henry Oldenburg segretario della londinese  Società Reale  che l'«...Excellentissimus Io Baptista Capuccius Crotoni morans, Vir in genuina philosophandi methodo, et in re chymica apprime versatus, mihi non modicum spei  pollicetur, totamque suam operam spondet in fidelitur observando, quae in utraque Calabria, et extrema Italiae ora mirabilia deprehenduntur » [65]. Diventato socio della Royal Society, il bolognese era stato chiamato a collaborare alla compilazione di una Storia naturale che la Società Reale intendeva redigere e comunicava ad Oldenburg la disponibilità di Giovan Battista Capucci[66]. La stima di cui gode nei confronti di Malpighi è attestata da questo invito; in lui trovava uno studioso di provata esperienza per un'accurata ricognizione naturalistica in quelle terre di Calabria, in grado di riferire sull'antica storia naturale della sua regione. Capucci accetta, ma forse senza molto entusiasmo l'incarico di corrispondente al quale il suo amico l'aveva chiamato perchè, gli fa notare, il lavoro non sarà agevole e «...bisognerà, ò peregrinare per ambodue le Provincie ò commetterne le diligenze ad altri amici»[67]. Le difficoltà erano rappresentate soprattutto dallo spostarsi agevolmente e avventurarsi a cavallo presentava difficoltà innumerevoli.

Due mesi dopo tuttavia è già al lavoro e l' 8 ottobre 1669 comunica  a Malpighi che « Per  compilar il racconto di tutte quelle cose naturali, [...] hò havuto ricorso ad amici di lettere, e di buona moralità, perche non affascino festuche, e spighe; [...]in queste parti non sono Cave di metalli, sè non che Una di ferro, ancorche gli paesani riferiscano, che vi siano terre metallifere, et un tempo messe in lavoro. Miniere vi sono di sal comune, Nitrarie, e varietà di terre »[68] Ma poi, forse preoccupato per la gran mole di lavoro da fare, aggiunge  che «...però havrei disiderato, ch'ella non mi havesse impegnato appresso quei SSri. [verso la Royal  Society] per un gran capitale».  E  la preoccupazione non è infondata se la sperata collaborazione di colleghi ed amici si  rivelerà più  difficile del previsto e «...con quanti  stenti si cavano dà bocca d'alcuni Medici comprovinciali dieci parole per volta, e dà molti di loro niuna».   L'indagine sulla storia naturale della Calabria procede con fatica.

Alla fine dell'autunno i segni di una malferma salute si presentano nuovamente. Il 22 novembre, gli fa sapere che «...sopra l'inventario dà farsi delle cose naturali...son  molte settimane, che mi sono applicato in raccogliere quanto si truova nel recinto di queste due Provincie ultime d'Italia [...]. Mà havendo sin dal principio pensato aiutarme in ciò con qualche peregrinazione attorno, oltre le relazioni commesse à persone di buona fede per quello, che non potrò osservare con proprij occhi; non hò incontrato buona ventura; imperoche in questi mesi autunnali, che sarebbero stati opportuni à viaggiare, mi son trovato inchiodato d'una si mal concia salute, sotto la quale fin hora peno, che n'è men fuor di Casa mi è concesso l'uscire dà un mese in quà; e pruovo Sr. Marcello mio, che in me la Vecchiezza accelera il suo corso, e fruttifica quattro, ò cinque anni prima del 60...»[69].  E l'impedimento è notevole se per  trascrivere i risultati di questa sua relazione naturalistica (peraltro a noi mai giunta) si è «rivolto tutto per questo inverno à gli uffici della penna, e preso in Collega il Sr. Giovanni Battista Abati...».  I mesi successivi saranno ancora più difficili. Il 18 febbraio dell'anno seguente, il 1670,  ci scrive che «... m'inoltrai tanto nel mio male, che nel dè di S. Lucia fui poco men che ucciso dà Vomiti atrabilarij deliquij, e svenimenti di cuore dopo esser stato tutto 9bre acciaccato; nè la finè qui per mè il Cielo, mà èl resto di quell'anno, e tutto il Gennaio passato, [...] e dolori articolari, e posteme, e piaghe hò havuto, che poco men che non mi han tolto la patienza d'un Christiano, non che d'un filosofo. Hora non mi lamento nè dello stomaco, nè del capo, mà pur conosco, che non dandosi in questa mia età di 56 la restituzione in integram, mi deverà restar dà piatire un pezzo...» [70]. Il suo promesso contributo alla Società Reale subisce ulteriori ritardi. Sono soprattutto gli acciacchi fisici a creargli i maggiori impedimenti perchè  «...con le genocchi indeboliti oltra misura, è co'l mal della schiena, e proprio nell'osso sacro, che spesso mi fà gir carpone, ò curvo...». Costretto all'inattività, sono ormai cosè lontani i tempi quando stava «...meglio  con l'esercizio della caccia fuor di Cotrone - scrive - hor qui dentro senza moto, sedentario, e sempre trà libri, hò logorato il fior  della sanità  [della salute], e mi accosto à gran passi alla morte»[71]. In questi passi del carteggio si avverte qualcosa del suo vivere nel suo tempo. Ammalato, solo, invecchiato anzitempo, in questa lettera  egli vive la dimensione più profonda della solitudine. Ma forse è un Capucci  malinconico, più sfiduciato  che realmente preoccupato del suo stato di salute,  salute che si rivelerà meno  compromessa di quanto lascia intendere se è vero che muore, probabilmente sessantasettenne,  non  molto lontano da quella che è la speranza di vita alla nascita di un uomo del seicento.

Insofferente, «abborrentissimo  di medicine per bocca », incurante della mentalità idrofobica del tempo - balnea, vina, venus consumant corpora nostra -   pensa che per lui possano essere utili le acque termali dei bagni di Pozzuoli e le stuffe di Napoli[72]. In fatto di terapia  il nostro è incline ad astenersi da cure troppo empiriche e dalla efficacia spesso dubbia, più utili agli speziali che agli ammalati. La sua terapeutica si affida al buon senso. Conscio delle difficoltà della medicina del tempo (ancora basata sul vecchio paradigma fisiologico della teoria umorale) a tradursi in terapie utili, più fiducioso nella  vis medicatrix  della natura, non esita  a consigliare a Malpighi, in una lettera del 19 maggio di quell'anno, che «...dà prattico nè casi proprij, ch'il faccia co'l minor uso di farmacia, che sia possibile, e co'l maggiore intorno alla Dieta; imperòche nella oscurità, in che ci trovamo, cosè della Meccanica del corpo nostro, come delle cause dè mali, il piu' sicuro partito s'è, mettersi in braccio della Natura, e lasciar il medicar stravolto dè nostri tempi, che non s'a reparare à fermenti guasti, mà lavora sempre intorno al mal prodotto d'essi» [73].  Ma anche  l'uso dei rimedi naturali  richiede attenzione, poichè in ogni cosa vi è parte di ogni cosa e spiega, in una lettera di qualche anno più tardi, come «...i vegetabili  dà per loro hora siano à noi Veleno, hor alimento, hora salutiferi, hora nocivi, e per conseguenza non si possa dar leggitima elezzione di loro per l'uso»[74]. Dopo cinque lunghi mesi di malattia, in marzo, sembra essersi ripreso completamente ma il  proposito  di recarsi ai bagni di Pozzuoli e da qui a Napoli,  « ove il desiderio di riveder gl'amici piu', ch'alcuni miei interessucci portarmi doveano»,  non gli riesce.

 

All'attività di medico unisce una intensa attività di studio, una passione bibliofila inguaribile. Costretto a trascorrere in casa molto del suo tempo, lo studio e la lettura occupano molte ore delle sue giornate. Questo periodo è caratterizzato infatti da una un'incolmabile ansia di conoscere.Tra i libri e le letture egli ha ''logorato  il fior della  sanità'',  ma ai libri proprio non sa rinunciare. Il desiderio di conoscere quanto  la medicina e la chimica andavano scoprendo lo porta a richiedere con insistenza ad amici e conoscenti, opere scientifiche e notizie su di esse.  Attraverso una rete di fidati intermediari il nostro si mantiene in contatto con editori e mercanti  di libri come Bernardino Bontacchi mercante veneziano. A Napoli è Giovanni Alberto Tarino, editore-libraio, che gli assicura gli invii, mentre a Roma può contare su Monsu' Biagio Diversini, libraro in Parione [75].  Ma determinanti per assicurare i contatti con amici e studiosi, compreso Malpighi, si riveleranno alcune persone di fiducia come il fedele Giovan Vincenzo Infusino, agente del Capucci a Napoli che ha cura di seguire la corrispondenza ed i contatti per conto di lui;  a Roma l'arcidiacono di Crotone Muzio Suriano, o Soriano, vescovo di Santa Severina (1674-1679) e il “patrizio di Crotone” Carlo Berlingieri anch’esso vescovo di Santa Severina (1679-1719).  E poi ancora Luigi Lemos a Livorno,  Francesco Catani, l'amico fiorentino  che vive a Napoli[76]. A  Malpighi stesso si rivolgerà  ripetutamente - ringraziandolo per i «suoi spessi duoni di libri comprati in bottega» - di acquistare per lui  volumi, « perchè i librai d'Italia poco curano di commetter cose che non comprano i frati, e Giuristi ».  Nell'aprile 1671, dopo mesi di lunga attesa, gli vengono consegnati i volumi che l'amico bolognese gli aveva inviato. Francesco Catani, agente del Malpighi che da Livorno è in contatto a Napoli con Tarino, è riuscito a superare le pastoie doganali e a far arrivare il fagotto  al nostro. Ma l'attesa è premiata perchè  tra questi pare aver trovato  «...quello, ch'in tanti anni vò cercando nella Chimica».  L'opera è l' Actorum laboratorii chymici Monacensis, seu Physicae subterraneae  libri duo  di Johann Joachim Becher (1635-1682) pubblicato a Francoforte nel 1669[77].  Ma l'opera inviatagli da Malpighi  è incompleta. Dei due tomi previsti  egli ha ricevuto solo il primo « ...e l'autor nel titolo ne promette due, credo che  non era fuor delle stampe nelle fiere  [in]Vernali dell'anno passato, e che hora vi possi essere. Onde sono à supplicar instantissimamente l'humanità sua à far diligenza in Venezia  ove dà Francfort facilmente sarà stato mandato à SSri Combi e Lanoui  [Combi e La Nou', due veneziani mercanti di libri], che  vi tengono continuo traffico e procurarmelo» [78]. Forse il secondo libro della Physicae subterraneae non gli giungerà mai, ma  è importante notare come la diffusione e la conoscenza scientifica nel Seicento si realizzi anche attraverso un continuo scambio di  lettere, libri e  commenti su questi. Certo questo è un secolo in cui si assiste ad una notevole fioritura di opere a stampa, non sono più una rarità come nel precedente, ma non sempre si dimostrano veramente interessanti. Dello Spicilegium anatomicum (Amstelodami, 1670), del medico e chimico tedesco Theodorus Kerckring (1640-1693), nel quale aveva messo  in dubbio i risultati ottenuti con il microscopio e la natura ghiandolare del fegato suggerita da Malpighi[79],  in una lettera di poco successiva Capucci scrive che «...egli [Kerckring] quello che detesta nel principio dell'osservazioni, mi par che  loda nella fine, [...]. Questo S. Kerkringio mussita gran cose, mà sinhora egli fà volumi piu' belli in carta, e stampe grosse, che in dottrina. Aspettaremo con desiderio quell'altre osservazioni chimiche e theraupetiche che promette, e sè à Dio piace piu' pieni di sugo, che di scorza.» [80].

Attraverso una complessa rete di procaccia è in grado di assicurarsi  molte delle novità scientifiche che vengono date alle stampe. Ma non sempre è così facile. Per la Dissertatio epistola de bombyce  del Malpighi, stampata sotto gli auspici della Royal Society (Londini, 1669), pur di averne una copia è disposto a «comprarlo un'occhio» e più volte, nelle lettere, fa intendere di  aspettarla con estremo interesse [81].

 

Il carteggio ci rivela in questi passi un Capucci attento le cui riflessioni, lontane da quella verbosità scolastica, sono in linea con gli orientamenti che stavano precorrendo la moderna fisiologia. E in realtà tutta la riflessione capucciana si inscrive nel clima intellettuale dello sperimentalismo, cioè in quell'orientamento metodologico in cui la ricerca scientifica veniva fondata sull'esperienza.

In una lettera dell'anno precedente, nel commentare la risposta di Richard Lower [82] (che aveva confutato al Meara il suo  Examen diatribae Thomae Willisii, de febribus, Londini,  1665),  per quanto il nostro ne condividesse il parere dissente poi da questi quando scrive che il sangue doveva il suo calore naturale al passaggio attraverso il cuore, perchè è inverosimile che dal  sinistro ventricolo possa ricavarsi quel calore. Il cuore - ci fa capire Capucci, ormai lontano dal suo maestro Severino che aveva scritto che nel sangue trovava vita lo spiritus [83] - è solo un muscolo e non il generatore del calore innato (degli spititi vitali). « Et in fatti in quelle poche carte, ch'il Lowero verga in diffesa del Willis, - si chiedeva in una lettera del 26 marzo 1670 - non si può negare, che egli dica delle belle cose, ancorche poi su' la troppo confidenza di se stesso imprenda anche in esse di stabilir  dottrine troppo animose non senza qualche contradizzione à sè stesso; come sè no' sbaglio, parche cosi gli sia succeduto nella disgressione intorno al sangue, ove incaparbito à stabilire l'escandescenza  [il calore]  notabile d'esso nel sinistro ventricolo del cuore [...] e - prosegue Capucci - io mi rendo incapace... [di credere] di questo fuoco, che dà Vecchi, a dal Corringio in quà dà molti dè moderni vien assegnato al cuore, et al suo sinistro ventricolo »[84].

Nella stessa lettera non condivideva l'opinione corrente sull'apparato respiratorio, che sosteneva che la funzione primaria fosse quella di provvedere al raffreddamento del sangue, perche non può «...credere,  su l'uso della respirazione sia l'attemperare, e raffredar il sangue, che hà dà passar colà per ricever dall'ignizione il suo compimento» [85].

Non meno perplesso si mostrerà di fronte all'idea che la fecondazione potesse aver luogo attraverso il sangue, come aveva scritto Caspar Bartholin nel suo aura seminalis [86]. La chiarezza sulla funzione riproduttiva  presuppone la conoscenza dell'apparato genitale e delle ghiandole seminali, e il sangue non era adatto a questa 'funzione'.

 

Tra l'aprile 1671 e  l'estate dell'anno successivo Capucci  invia solo poche lettere a Malpighi il quale, preoccupato del lungo silenzio, scrive ripetutamente al medico coriglianese. Carlo Fracassati (1630-1672), che era succeduto a Malpighi nella cattedra di Messina, gli aveva infatti dato notizia di una epidemia (forse un'epidemia difterica) che diffusasi già nel mese di dicembre, andava  propagandosi in Messina  dove, ai primi  del 1672,  aveva causato ventimila decessi[87].  E   Malpighi ha ragione di temere  perchè, nell'attesa lettera di risposta dell' 1 agosto 1672 Capucci - che è riuscito a sottrarsi al contagio - scrive  « Hà dovuto V S Ecce.ma con raggione, sospettar dal mio silenzio, corso dà Xmbre à Maggio,  qualche sinistro caso di me,  Sè il s. Catalano, che lutta contro la morte per molti mesi, l'ha dato avviso d'una fiera Epidemia, che di là  [da Messina] è passata, et attaccatasi nè confini di questa  Prov.a [Provincia], d'onde và tuttavia serpendo piu' oltre con qualche stragge »[88].  Ma il silenzio del nostro non era dovuto solo ai problemi connessi al pericolo di contagio del morbo che  avrebbe impedito ad amici e  corrieri  di viaggiare.  Dall'aprile  dello scorso anno il fedele Infusino, l'amico di Santa Severina, si  era ritirato  a vita privata e del Sr. Tarino a Napoli - che avrebbe  potuto sostituirlo -  non riesce a spiegarsi perchè  «...habbia ...sospeso meco il traffico delle lettere dà febraio  in quà »,  per  cui  si era visto  « costretto à cangiar stile nel ricapito delle lettere »  e fare appello  in Roma alla cortesia del nuovo arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingieri. I tanti mesi di silenzio si spiegano in parte con le difficoltà a  trovare persone da incaricare per l'inoltro della corrispondenza. 

Alla fine del 1674 il Visconte di Francavilla era passato a miglior vita e, il 24 aprile dell'anno successivo anche il Marchese d'Arena ferito da due sicari assoldati dal Marchese di Postiglione, dopo diciassette giorni di agonia, era morto.

All'inizio del 1675 Capucci alterna un breve periodo di soggiorno a Napoli, quasi in una sorta di ricerca del tempo  passato  che nei ricordi assumeva toni più intensi.  Ma i suoi viaggi sono sempre più rari e brevi e il 17 aprile dello stesso anno, dopo sette giorni di viaggio,  fa ritorno al suo  abituro in Crotone

Anche la corrispondenza tra i due vecchi amici diviene meno frequente. Una lettera inviata a Malpighi nel dicembre 1678 è forse l'ultima. Incontenibile curioso, sollecita la sua opinione sull'anatomia delle vie pancreatico-biliari, sulla composizione e sulla natura del succo pancreatico,  sulla fecondazione; e poi ancora chiede notizie dei comuni amici, della Società Reale, di nuovi libri naturalmente. Dal canto suo, il bolognese lo prega di cercare per sè antiche monete e cose bizzarre, «qualche curiosità di mare, o cose petrificate, e rare», quei ''curiosa'' provenienti dai capricci della natura, per il museo dell'Aldrovandi [89]. Poi, bruscamente, le lettere di Capucci s'interrompono qui, e con  esse  le notizie su di lui. Nella corrispondenza di Malpighi degli anni successivi il nome del nostro  non compare più, anche se non possiamo escludere che tra i due possano esservi stati ulteriori contatti epistolari forse andati persi, per sempre, nel rovinoso incendio che divampò nella notte del 6 febbraio 1684 nell'abitazione dello  studioso a Bologna.  

La lettera  del 6 gennaio 1679 inviata al nostro da Malpighi,  è una prova   evidente di grande stima  nei confronti  di Capucci,  basata su un autentico spirito di amicizia, che passando gli anni si era sempre più approfondita. Ma  ha anche il sapore di un mesto saluto al suo lontano amico di Calabria. «E indicibile l'allegrezza, ch'io hò sentito  ricevendo l'humanissima di Vostra Signoria Eccellentissima - scrive Malpighi -  havendo un segno  del suo cordiale affetto, e della  sua presente salute [...] e le prego con tutto lo spirito una vita perenne, e quieta, sperando ch'un giorno ella si risolva di beneficare il mondo con qualche suo  invento e meditatione» [90].

E qualcosa il nostro stava preparando. Sappiamo di un suo scritto Novae Medicorum Londinensium Academiae fidelis, et accurata narratio, ma sorpreso dalla morte non potè essere dato alle stampe e restò a mano custodito dai suoi parenti prima di andare perso [91].  Non sappiamo altro poichè nella pur copiosa corrispondenza, Capucci non  ne fece mai cenno[92]; ma il suo vivo interesse verso autori d'oltralpe suggeriscono un progetto in tal senso[93]. Forse si trattava di una dettagliata ricostruzione dei rapporti con gli academician anglosassoni, un resoconto sui proficui rapporti tra studiosi italiani e colleghi inglesi che, unitamente ad analoghe situazioni, stavano dando vita ad una collaborazione internazionale senza precedenti[94].

Capucci scrisse poco rispetto a molti suoi contemporanei,  forse non del tutto estranei da ogni ostentazione. E questo un pò ci sorprende perchè un uomo della sua levatura culturale avrebbe potuto lasciarci di più.  Eppure il suo esordio era iniziato sotto i migliori auspici se a trentanni aveva trovato spazio tra gli scritti del Severino. La sua''Historia Abscessus Innominati'',  che compare nel De Abscessuum Recondita Natura, Libri VII (Neapoli, 1642) di Marco Aurelio Severino, pubblicata sotto forma di lettera  con la data del 9 gennaio 1642  a Giovanni Simone De Gratia, costituisce probabilmente il primo scritto [95]

E' la storia questa di un caso trattato  con successo dal tharsiensis.  Capucci descrive, dopo un breve cenno autobiografico («qui tunc temporis Carthusianorum hospes vixerim») la storia del male dal suo esordio sino alla guarigione operata da Severino su un ginocchio malandato del padre certosino Dionisio Coccia.  Questo breve scritto, di argomento strettamente medico,  è tutto quello che ci è pervenuto  di questi  primi anni a Napoli.

Alcuni anni più tardi pubblicava la ''Exercitatio: An, et cur, ubi maximum Venenum, ibi est maxima Antidotus''  (lo scritto certo di maggior impegno), l'esercitazione su veleno e antidoto che "costituisce la mirabile appendice del Vipera Pythia" del Severino (Patavii, 1650)[96]. Questa dissertazione è più propriamente filosofica che sperimentale,  anche perchè ha un pò lo scopo di far da conclusione allo studio del Severino. Poichè si riteneva che mali e rimedi erano gli uni accanto agli altri, attraverso un complesso ragionamento Capucci vuole dimostrare che l'antidoto si trova laddove nasce il veleno (il simile si cura col simile). La conclusione della exercitatio è che  «non si crea un potente bezoartico senza un veleno, nè un alessiterio senza veleno, quali siano i composti letali, questi contengono in sè un qualche cosa dell'antidoto perchè, se si trovasse un ottimo separatore, questo potrebbe estinguere il veleno congiunto piu' di ogni altro antidoto»[97], poichè l'antidoto si trova immediatamente dopo il veleno. 

Di molti anni più tardi, sono da ricordare un epigramma contenuto nel Teatro Farmaceutico (1666) del Donzelli, e una praefazio che precede l'Artis medicae (1666) dell'anatomista Sebastiano Bartoli[98]. In Opera Posthuma di Malpighi (Amstelodami, 1700) viene  pubblicata invece parte della lettera del 4 aprile 1666, scritta in occasione della disputa sostenuta da Malpighi contro il Lipari, col titolo di  ''Epistola Domini Capuccii circa Responsum adversus  Liparum Auctorem triumphi Galenici''[99].

  

Capucci non legò il suo nome a scoperte particolari, ma la sua funzione scientifica e filosofica, nelle vicende della medicina che andavano animando la Calabria colta del Seicento, fu di primo piano.  Forse i suoi scritti, molto meno di quanto non rendano le sue lettere, non saranno sufficienti  per comprendere le linee essenziali del suo pensiero e della sua ricerca, ma la lettura del suo carteggio ci ha permesso di  scoprire aspetti inediti  della vita di un uomo del tempo,  della personalità e  degli interessi di un medico,  di leggere la storia della medicina da una visuale nuova, quella dei rapporti fra uomini prima ancora che studiosi. La scelta di vivere in provincia gli impedì di raccogliere maggior fama e notorietà, lasciandolo in un oblìo che sembrava essere senza fine. Ma gli ha permesso di mantenere quella autonomia intellettuale e quella capacità di giudizio che appare invece smarrita in tanti ''scienziati di cortè" del suo tempo.  Lucantonio Porzio, nella sua Dissertatione I che conclude con l'elogio del nostro,  non dimenticò di scrivere di Capucci «come colui che ha realizzato la figura ideale del medico»[100].

 

 

 

  

 



[1] L. D'Avanzo,  Il  Castello e il feudo di Corigliano Calabro nel 1606  (da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli), Industria Tipografica Meridionale, Napoli 1968, pp.5,6.

[2] Cfr. dell'Atti anche Storia di Crevalcore, Bologna 1841. Un'interessante raccolta di lettere di Malpighi, Redi, Magalotti e altri, venne stampata nel 1782 dall'abate Giambattista Tondini, Delle lettere di uomini illustri pubblicate ora per la prima volta..., Bartolommeo Capitani, Macerata 1782.

[3]Cfr. G.Mosca,  Vita di Lucantonio Porzio, Napoli MDCCLXV.

[4]Pier Tommaso Pugliesi, Istoria Apologetica Dell'antica Ausonia, oggi detta Corigliano, Nicolò Abri, Napoli 1707, pg.251.

[5]Archivio Parrocchiale di  Santa Maria Maggiore di Corigliano (=ASM),  Libro dei Battezzati 1578-1590 e 1603-1620, c.247 r. :  « A 6 di Luglio 1612.  Gio: Batta figlio di Carlo Capuccio, et d'Auridia nigra moglie nacque à 2 dil ditto, fu' battizato dal Dott. Don Fidirico Vogna, fu' Compadre Mutio di Dato, e  Comadre Lucia  Minio ». 

L'archivio è costituito da registri e documenti cartacei vari, i più antichi dei quali sono del XVI secolo. I registri parrocchiali recentemente riordinati e ben conservati offrono, nonostante la serie sia discontinua per la mancanza di alcuni volumi, una fonte indispensabile di notizie sulla storia demografica e sociale  della città.

In  una lettera del febbraio 1670 inviata al Malpighi, in uno dei rari passi autobiografici, Capuccio che sta riavendosi dopo lunghi mesi di malattia scrive, «Hora non mi lamento né dello stomaco, né del capo, mà pur conosco, che non dandosi in questa mia età di 56 la restituzione in integram, mi deverà restar dà piatire un pezzo...»: Biblioteca Universitaria di Bologna (=BUB), manoscritto  2085, vol. X, c.66 r., numerazione a matita. E' il 18 febbraio 1670 per cui, calcolando a ritroso l'anno di nascita, il nostro sarebbe nato nel 1614 anno che non coincide con il nostro rilievo. Se questo dato potrebbe creare qualche incertezza, alcune considerazioni possono tuttavia fugare ogni dubbio. Al di là del fatto che lo scarto fra le due date è poco più di un anno e mezzo, ci preme osservare come l'età precisa fosse una delle più frequenti incertezze. L'età dei censiti nei libri dei defunti, negli stati delle anime (anche per i bambini più piccoli i cui genitori avrebbero dovuto conoscere l'età), era quasi sempre accompagnata dall'allocuzione ''circa'' che denota come nè i singoli interessati nè i parroci - che pure attendevano alla compilazione dei registri - erano certi dell'età. Addirittura per i più piccoli sino a quando non avevano compiuto i cinque anni - ma come saperlo con esattezza? - non veniva registrata l'età (Cfr: R. Merzario, Signori e contadini di Calabria, A.Giuffrè» Editore, Milano 1975, pp.37-38). In considerazione della poca precisione con cui veniva annotata l’età dei censiti non si può attribuire ai dati una precisione e un significato che non posseggono. E poichè il calcolo degli anni veniva effettuato su un dato retrospettivo, dobbiamo pensare che il nostro, in un periodo in cui non si richiedevano certificati di nascita, abbia commesso un errore, comprensibile, di conteggio. Se c'è una cosa che ci pare sicura è il trascorrere del tempo, eppure sono diversi i modi di misurarlo.

[6]ASM, Libro dei Battezzati  1578-1590 e 1603-1620: « Lucretia fig.a di Carlo Cappuccio et di Auridia Nigra sua moglie fu battizzata...fu compadre Gio. Camillo Murano et comadre Aurelia di Corsado».

[7]ASM, Libro dei Battezzati 1578-1590 e 1603-1620,  c. 224 r. La nascita di un terzo figlio a così poco tempo di distanza da questi , ci fa pensare che Gio. Batta Francesco sia morto prematuramente e che i Capuccio abbiano voluto ricordare, chiamando Giovan Battista il terzogenito, forse il loro primo maschio.  La mortalità infantile in quegli anni era molto elevata, ma non ho potuto verificare se  questo sia realmente scomparso prematuramente per la mancanza del libro dei defunti del 1611 e degli anni immediatamente successivi.

[8]Da questo matrimonio nacquero Giulia, il 2 agosto 1611, Livia, il 24 febbraio 1614 e forse un Francesco nel 1620. Cfr. ASM, Libro dei battezzati 1603-1620.

[9]La più antica attestazione a noi nota che riguarda il casato Capuccio  è  contenuta in un Breve del 27 settembre 1504 dove leggiamo che « Andreae de Piperanis, I.U.D., familiari suo, providetur de parochiali ecclesia S.Susannae de Cidulio, Adiacen dioc., vac. per liberam resignationem  Vincentii de  Capuccis ». Cfr. F.Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, Roma 1974, doc. 14703.

[10]Un figlio di Marci Aurelio Cappuccius, G.Lcus fran.cus (Giovanni Ludovico Francesco) muore all'età di 26 anni «incirca in vico Serraturi in domo sua» il 19 ottobre 1661, cfr. ASM, Libro dei Defunti, 1604-1606, 1633, 1639-1644, 1661-1668.

Sempre dal  Libro dei defunti,  ma degli anni  1668-1680, 1682-1686, 1698-1705, leggiamo che il 18 giugno del 1680 è venuta a mancare  una « filia minor Joannis Cappuccio» di appena sei anni  circiter. E' evidente che, nonostante l'allontanarsi del nostro, egli aveva ancora dei parenti a Corigliano.

Nel Libro dei Matrimoni che va dal 1770 al 1794, leggiamo che «Scipionem Cappuccio, vidaum Agatha Donadio, et Corneliam Musca, vidaum Pauli Baldo» contraggono matrimonio il 30 gennaio 1776 (c.64). Entrambi sono alle seconde nozze ma sappiamo che dal suo primo matrimonio Scipione aveva avuto Theresia andata poi in sposa, quando ormai suo padre era morto, a Joseph Fino il 28 maggio 1792 (c.230).

[11]Il 23 luglio 1603 viene  emanato un Breve  «Pro Horatio  Cappuccio de Corigliano, Rossanen. dioc., absolutio et dispensatio super irregularitate, quia in XIV aetatis anno a suo magistro musices, nefandae libidinis cupidine accensus, tentatus est». Cfr. F.Russo, Regesto Vaticano..., op. cit., doc. 25905.

[12]D. Francesco  Capuccio (ma lo stesso si firma anche Cappuccius) lo ritroviamo più tardi, nel 1655, tra i sacerdoti che hanno officiato nella Prepositurale chiesa parrocchiale di San Pietro.

[13]Alcuni anni dopo, nel 1629, il  vescovo di Venosa Andrea Perbenedetto, in visita pastorale nella diocesi di Rossano, preoccupato dell'ignoranza dei fedeli e del clero, aveva emanato un editto per le città di Rossano, Corigliano, Cropalati e Longobucco affinché  «...per l'avvenire si debba tenere un maestro salariato, acciò li sopradetti Clerici siano istruiti et ammaestrati ». (L. Renzo, Religiosità e cultura popolare nel Rossanese, Cosenza 1981, pg. 54).  In queste sorte di scuole, aperte a chiunque, venivano impartiti non solo gli insegnamenti della dottrina cristiana ma anche nozioni di grammatica, aritmetica e altre discipline.

[14]Era del resto questa una pratica comune. Luca de Rosis ad esempio, rampollo di una delle famiglie più in vista della città, coetaneo del Capuccio (era nato nel 1614), aveva studiato a Napoli  dove si laurea nel 1632. Dopo aver esercitato l'avvocatura ed altre cariche di rilievo nel capoluogo napoletano, farà ritorno a Corigliano solo diversi anni più tardi dove, nel periodo 1640-1641 e negli anni 1654-1655, lo troviamo ricoprire la carica di sindaco (Cfr. C. Di Martino, Sindaci, Governatori e Mastrigiurati dell'Università di Corigliano (1494-1806), Rossano 1990, pg.35).

è necessario ricordare che  il significato di università  non era quello che intendiamo oggi. Le ''Universitas'' erano corporazioni o associazioni di cittadini (ad esempio i Comuni), di arti o di mestieri. Per indicare quello che oggi s'intende con il termine ''università'' si usava il termine di ''studium''. Il dottorato in filosofia e medicina, dopo gli studi di sola filosofia, si concludeva di solito subito dopo i vent'anni. Questo, conferiva la facoltà a proseguire gli studi di medicina teorico-pratica e di svolgere la formazione  pratica scegliendosi un medico come maestro presso il quale svolgere l'apprendistato. Solo dopo diversi anni si ''acquisiva'' l'idoneità e l'abilità ad esercitare l'attività di medico vera e propria.

Le lezioni  pubbliche ordinarie di medicina teorico-pratica si tenevano rigorosamente al mattino  sino alla campana della terza  (cioè dalle sei-sette alle nove)  , mentre quelle ''straordinariè' più o meno intorno alle cinque del pomeriggio. La giornata di studio era libera quindi  dopo le nove del mattino e nel primo pomeriggio che veniva occupato con le visite agli ammalati (Cfr. E.Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica , in  Storia d'Italia, ''Annali'' 7, Malattia e Medicina. Einaudi, Torino 1984, pg.23).

[15]T.Gravina Canadé, Giosafatte op. cit., p.124. Alla sua morte don Cesare Capalbo venne sepolto nel sepolcro di famiglia nella chiesa dei padri Riformati.

[16]«Produrre un medico è un'impresa costosa, ma orgoglio di famiglia» ( C.M.Cipolla, Public Health and the Medical Profession in the Renaissance,  Cambridge University Press, Cambridge 1976, pg.99).

[17]Archivio Storico del Comune di Corigliano Calabro  (=ACC), Archivio Saluzzo,  Libri delle Obbligazioni Penes Acta, 1622/1630,  da c.223 r. a c.224 v. e seguenti;  1631/1638  c. 84 r.; 1640/1702 c. 167 r.

[18]Biblioteca Nazionale, Napoli  (=BNN), ms  XI  AA 36, c.27 r.,  dai documenti  raccolti da L. Amabile su Marco Aurelio Severino.

[19]M.A. Severino, Vipera Pythia. Id est, De Vipera Natura, Veneno, Medicina, Demonstrationes, et Experimenta nova.  Typis Pauli Frambotti Bibliopo., Patavii MDCL, pg. 85, 460. A. De Ferrari in Dizionario Biografico degli Italiani,  Istituto della Enciclopedia Italiana - Roma 1976, vol XIX, pg.269.

[20]Per la conoscenza di questo complesso certosino consigliamo la lettura di: G.Doria, Il museo e la Certosa di S.Martino. Arte, Storia, Poesia, Napoli 1964 e C.Padiglione, La biblioteca del Museo Nazionale nella Certosa di S.Martino in Napoli ed i suoi manoscritti esposti e catalogati, Napoli 1876.

[21]Marci Aurelii Severini,  Antiperipatias. Hoc est adversus Aristoteleos. De Respiratione Piscium Diatriba,  Ioannis Alberti Tarini, Neapoli MDCLIX, pg.96.

[22]Hettorre Capalbo dottor fisico - come lui si firma - medico di grande talento, erudito fisiologo e profondo conoscitore di anatomia comparata, abitava nel rione ambito della Chiesa Collegiata dei Santi Pietro e Paolo. Nato a Terranova da Sibari, giovanissimo si era trasferito a Corigliano dove sposa Donna Maria Salimbene dalla quale, dopo aver avuto tre figli, rimane vedovo. Dei tre, Francesco, seguirà la carriera del padre (P.Tramonti, ''I Capalbo'', 'Corriere della Sibaritidè, anno VII, n.4, aprile 1984. Corigliano). Il 21 settembre 1644 sposa in seconde nozze la coriglianese  Gisimina de Rosi  (Gelsomina de Rosis) nella Chiesa di Santa Maria della Piazza  (APC,  Santa Maria Maggiore, Libro dei Matrimoni  1644-1659), ma si spense alcuni anni dopo se è vero, come riferisce l'Amato, che morì nel 1650.  In alcuni appunti del Severino, conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli, trascritti a mano dall'Amabile, leggiamo  «Solertissimus Hector Capalbus Thurius Municipalis noster ». ( BNN, ms  XI  AA 36,  c.109 r.).

Orazio Lumbisano, vissuto a Corigliano tra la fine del Cinquecento e la prima metà del  Seicento,  era nato a Crosìa  ma si trasferì presto a Corigliano ove si fermò sino alla morte.  Ricaviamo questo dato dal libro dei battezzati  dell'archivio parrocchiale di Santa Maria Maggiore dove si legge che il 19 aprile 1618  viene  battezzato, « Carlo Nardo figlio del Dottor Oratio Lumbisano di  Corsia  [Crosia]  et di Vittoria ...sua moglie...fu compadre Gio. Pietro di Abenante e comadre Ia [Isabella] Milla Caracciola moglie  di Muzio di Abenante»  (APC,  Santa Maria Maggiore, Libro dei Battezzati  1578-1590  e  1603-1620 ). Ma di Corigliano  si considerava se  nel suo  De febribus,  stampato a Napoli nel 1629 da Matteo Nucci, si firma «Horatius Lumbisanus Philosophiae Ac Medicinae Doctor A Coriolano» e dedica l'opera alla Magnificae Universitati Coriolani eius Patriae. Il suo trattato è la testimonianza di un medico che vive ed opera in un'area  tradizionalmente malarica, la piana di Sibari, dove ogni anno, tra le fine dell'estate e i primi mesi dell'autunno, si dovevano  registrare diverse decine di casi di febbri perniciose.

[23]R. De Sanctis,  La nuova scienza a Napoli tra '700 e '800.  Editori Laterza, Bari 1986, pg.3.

[24]Biblioteca Lancisiana Roma  (BLR), II LXIV, t. 3, c.189 v.; W. Morabito,  Gian Battista Capucci  in 'Calabria Sconosciuta' n. 38, pg. 105. Reggio Calabria, 1987.

[25]BLR, II LXIV, t. 3, c.184 v.

[26] BNN, manoscritto XI  AA  36, c.51 v.

[27] BLR, II LXIV, t. 3, c.189 v.

[28]G. Caridi,  Uno ''stato'' feudale nel Mezzogiorno spagnolo, Gangemi editore, Reggio Calabria 1988, pg.123. A Santa Severina, sulla facciata, ingresso destro, della cattedrale si trova una lastra in pietra calcarea con il suo stemma e l’iscrizione FAVSTVS žCAFFARELLVS ž/ROMANVS žARCHIEPVS žS žS. Fausto Caffarelli fu vescovo di S.Severina dal 1624 al 1654. Il suo blasone  era: partito: nel 1° un leone sormontato da una corona; nel 2° semigrembiato. Al capo attraversante, all’aquila al volo abbassato sormontata da una corona (cfr. M.C.A. Gorra con la collaborazione di M.Morrone, Uno storico dualismo: l’araldica di Santa Severina tra arcivescovi e feudatari, Corab, Gioiosa Jonica 2012, p.23,34).

[29]«Carissimus Capuccius, iam diu secessit a nobis, peregrinatus in extremos Calabros  abstractore Antistite Sanctae  Severinae, quem audio nonnihil vulcania facultate delectari. Infrequentes igitur eius viri litteras deinceps expecta, donec rursus fortasse, qui suus est mos, Parthenopem revisere suavi tentetur fascino» .  BNN,  ms  XI  AA 35, c.234 v.

[30] F.Russo,  Cronotassi dei Vescovi di Rossano, Rossano 1989, pg.148.

[31]F.Capecelatro, Diario dei tumulti del Popolo Napolitano, Napoli 1854, vol. III, p.147. Cfr. anche D.Arena, Istoria delli disturbi e revolutioni accaduti nella città di Cosenza e Provincia nelli anni 1647 e 1648, estr. Archivio Storico delle Province Napoletane, Bologna, s.d., p.73.

[32] Archivio di Stato - Napoli  (ASN),  Archivio Saluzzo di Corigliano,  '' Platea dello Stato di Corigliano con suoi Feudi  di S. Marco, le due Apolinare, e Casali di S. Giorgio e Vaccarizzo. Formata in ottobre 1789''. Carte, Busta n.45, foll. 1309-1310.

Cfr. anche in  G. Santo, G. Felicetti, L. Petrone, F. Spataro,  Il  Castello di Corigliano Calabro. Origine e sviluppo di un fortilizio nel meridione, De Rose, Cosenza 1983, pg.17.

[33] D. Vizzari,  Schiavonea,  il Serratore, Corigliano 1993, pg.14.

[34]F.Capecelatro, Diario dei tumulti del Popolo Napolitano,   Napoli 1854, vol. III, p.147.

[35]Quaderni Coriglianesi 2,  Archivio Saluzzo Duchi di Corigliano, Inventario. Comune di Corigliano, Corigliano 1990, pg.18.

[36] W. Morabito,  A proposito di Marco Aurelio Severino, in  Medico e Paziente, Anno XVI, n.10, Edifarm, Milano 1990, pg.88.

[37] Archivio  Privato. Il documento, rogato dal notaio Donato Alberto, reca in calce la firma del nostro ''Ioes  Bapttista  Capuccius''.

[38]Del Tozzi si veda Petitorium, in quo continentur, quae unisquisque Pharmacopeus Hujus Urbis, ac Regni, in sua Officina habere, atque in Regiis Visitationibus ostendere debet. A Luca Tozzi Regio generali Protomedico, et ab Almo Collegio Pharmacopoerum hujus Urbis, nuper reformatum, Neapoli, Ex Officina Caroli Porpora & Jo.Dominici Pietroboni, 1694.

[39]L. A. Portii,  Dissertationes variae,  Sumptibus Combi et Lanuvii, Venetiis MDCLXXXXIV,  pg.59.

[40] -  Su questi argomenti, alcuni anni più tardi,  Giuseppe Del Papa (1649-1735) compilerà addirittura due trattati sul caldo e sul freddo, sull'umido e sul secco.

[41] -  L. A. Portii,  Op. cit., pg.112.

[42] -  Ivi, pg.113.

[43]A. De Ferrari, in  Dizionario  Biografico, op. cit., vol.19,  pg.269.

[44]Marci Aurelii Severini,  Antiperipatias.  Op. cit., Ioannis Alberti Tarini, Neapoli MDCLIX,  fl.3. Anche le ricerche dell'Amabile, studioso del Severino, effettuate nell'ottocento nella chiesa napoletana di San Biagio dè  Librai si rivelarono senza esito.

[45] F.Russo, Regesto Vaticano per la Calabria , vol.VII, p.418.

[46]V.I. Comparato, in  Dizionario  Biografico..., op. cit., vol.29, pag. 138.

[47]Il Collaterale, composto dalle prime magistrature del Regno e da persone appositamente scelte, era il consiglio che assisteva il Viceré nel suo ufficio (cfr. A.Pertile, Storia del Diritto italiano, II (2), Torino 18982, p.206).

[48]«Dalla corrispondenza di questi e di altri napoletani si comprende che il clima si era deteriorato, a causa della diaspora degli Investiganti e del crescente isolamento di coloro che erano rimasti ».  Nel 1670, con la soppressione dell'accademia, il Cornelio è in viaggio verso la Puglia e sei anni dopo si ritira a vita privata in una casa fuori Napoli con l'intenzione di non esercitare più la professione medica.  ( Cfr. V.I. Comparato, op. cit., pg.139).

[49] Biblioteca Universitaria di Bologna (=BUB), manoscritto 2085, vol.X, c.70 v., num. a matita.

[50] BUB, ms 2085, vol.X, c.74 r.

[51] Cfr., R. Bernabeo, a cura di, Settecento Anni di Medicina, La scuola medica di Bologna. Farmitalia Carlo Erba, 1988. C.Calcaterra, Alma Mater Studiorum. L'Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna, Zanichelli, 1948.

[52] Malpighi era giunto in Sicilia alla fine di quell'anno quando destando clamore, aveva lasciato in modo  inatteso la cattedra di Bologna per una analoga a Messina e al quale il Senato  messinese avava offerto una somma incredibile per quell'epoca, ben mille scudi (cfr. G.Minelli, All'origine della biologia moderna. La vita di un testimone e protagonista: Marcello Malpighi nell'Università di Bologna, Milano 1987, p.73).

[53] L'ampolloso stile del libretto si riflette anche nel titolo che, per esteso, è  ''Galenistarum Triumphus Novatorum Medicorum Insanias funditus eradicans, ne mortales ex eorum haereticalibus, perpetuoque sepieliendis doctrinis, immatura, immo violenta morte moriantur'', Cosentiae, 1665.

[54] BUB, ms 2085, X, c.74 v.

[55] BUB, ms 2085, X, c.74 r.

[56] G.Donzelli, Teatro Farmaceutico Dogmatico, e Spagirico, Roma 1677 (in questa edizione  venne  mantenuta la  stessa prefazione che apriva  quella del 1666). Questa opera, nella quale «...si insegna una molteplicità d'arcani chimici sperimentati dall'Autore in ordine alla Sanità con evento non fallace e con una Canonica Norma di preparare ogni composizione...», ebbe notevole successo e venne ristampata più volte. Nella edizione del 1675 (Napoli, Paci Fasulo Monaco) è contenuto un bel ritratto inciso raffigurante il Donzelli.

[57] Capuccio è essenziamente un medico,  fu però l'abilità di chimico a imporre il nostro all'attenzione dei  contemporanei.

[58] Max Harold Fisch, The Academy of the Investigators  in  ''Science, Medicine and History. Essays in honour of Charles Singer'', London 1953, pg. 525.

[59] T. Cornelio, Progymnasmata Physica, p.151 (nell'edizione di Napoli del  1688).

[60] Lo stato di salute, si riteneva, dipendeva dalla combinazione variamente graduata di quattro umori principali,  il sangue, la flemma, l'atrabile e la bile gialla.  La malattia era vista come un' alterazione dell'equilibrio armonico di questi umori e il prevalere di uno sugli altri, era posto in relazione con i quattro temperamenti,  sanguigno,  flemmatico,  melanconicocollerico.

[61]  BUB, ms 2085, vol.X, c.66 r.

[62]  BUB, ms 2085, vol.X, c.53 r.

[63] H.B.Adelmann, The correspondence of Marcello Malpighi,  vol. I, pg.393.

[64] BUB, ms 2085, vol.X, c.60 r. e v.

[65] H.B.Adelmann,  op. cit., vol. II, pg.415.

[66] Sono queste tentativi di compendiare tutto il conosciuto insieme alle numerose esperienze che dentro e fuori dalle Accademie si praticavano che precedono e seguono la grande impresa settecentesca che alcuni anni più tardi vareranno e porteranno a termine Diderot e D'Alembert nell'Enciclopedie (?).

[67] BUB, ms 2085,  vol.X, c.63 v. Il Capuccio si riferisce all'antica suddivisione della Calabria che,  amministrativamente, era divisa in Citeriore e Ulteriore.

[68] BUB, ms 2085,  vol.X, c.64 r.

[69] BUB, ms 2085, vol.X, c.65 r.

[70] BUB, ms 2085, vol.X, c.66 r.

[71] Ibidem.

[72] La fama dei bagni e delle stufe (o sudatori) di Pozzuoli, dislocati nei Campi Flegrei ad ovest di Napoli, avevano fatto di questa zona il più celebre centro dell'idrotermalismo del meridione nonostante   il sisma del 1538  avesse distrutto  buona  parte delle strutture termali. Cfr.R. Artigliere (Joànn Illicus), Contributo della Bibliografia ed Iconografia di Pozzuoli e dei Campi Flegrei dal 1500 al 1963, Pozzuoli 1964.

[73] BUB, ms 2085, vol.X, c.70 r. e v.

[74] H.B.Adelmann, op. cit., vol.II, p. 668.

[75] Già nel 1632 si contavano in Roma ben 89 librerie situate per la maggior parte nel rione Parione dove il nostro Biagio Daversini libraio-editore aveva la sua attività (cfr. A.Martini, Arti mestieri e fede nella Roma dei Papi, Bologna 1965, p.175).

[76] Cfr la lettera del 25 luglio 1667 ( BUB, ms 2085, vol.X, c 55 v.).

[77] In questo lavoro, il chimico e medico tedesco già professore a Magonza,  affrontava una questione di notevole importanza,  quella del flogisto,  l'immaginario principio comune che, secondo gli alchimisti, nella composizione delle sostanze, conferiva le proprietà metalliche.  

[78] BUB, ms 2085, vol.X, c.69 r. e v.

[79] H.B. Adelmann, op. cit., vol III, pg. 591.

[80] BUB, ms 2085, vol.X, c.71 r.

[81] Le osservazioni del bolognese sul baco da seta furono accolte con notevole interesse, ma non era certamente nè il primo nè l'ultimo degli studi su questo singolare baco. Già nel 1564, Levantio Guidiciolo Mantoano pubblicava per la seconda volta gli "Avertimenti...bellissimi et molto utili a chi si diletta ad allevare, e nutrire quei cari animaletti che fanno la seta; quali volgarmente si nomano Cavaglieri, ovvero Bombici, o Bigatti, o anco Bacchi, come ti piace", Brescia, appresso Damian Turlino.

[82] Si tratta della  'Diatribae Thomae Willisii... de  febribus  vindicatio  adversus  Edmundum De Meara', Londini, 1665.   

[83]M.A. Severini,   Antiperipatias. Hoc  Est  Adversus  Aristoteleos  De  Respiratione  Piscium  Diatriba.  Napoli, 1659, p. 35  («Huius autem materia sanguis est, quo uno continetur omnis et definitur absolutio spiritus»).  Cfr. L. De Franco,  Filosofia  e  Scienza  in  Calabria  nei  secoli XVI e XVII. Cosenza 1988, pp.247-248.

[84] BUB, ms 2085, vol.X, c.68 r.

[85]Ibidem. Nelle sue Dissertationes variae (Venetiis, 1684) , a proposito della funzione della respirazione di sottrarre calore, il Porzio scriverà  che  «Joannes Baptista Capuccius acerrime negabat»  (Dissertatione IV, 'Se sia azione del freddo il condensare, e del caldo il rarefare') in: W.Morabito, Gian Battista Capucci, p.108, 'Calabria Sconosciuta', n°38, apr-giu 1987.

[86] H.B.Adelmann, cit., vol II, pg. 788.

[87] Ibidem,  pp. 603, 605

[88] BUB, ms 2085, vol. X, c.73 r.

[89] In una lettera precedente Capuccio gli  scrive di aver da parte «...una corona di Padrenostri lavorato dalla materia della seta, che si trova ne' vermini  [il baco da seta] prima di chiudersi ne' follicoli; mandarolla con p.a comodità à Roma, accio sia à lei trasmessa, la quale non havendo, come dice, veduto finhora di tali cose, gusterà di questo artificio...la distanza de' luochi, e le strettezze del commercio non mi permettono il mandarle, et un pò di Nitro stravagante, che si trova qui vicino, et una schieggia di sasso duro con dentro alcuni globoli di marchesita,...»  (BUB, ms 2085, vol.X,  c.73 v.).

[90] H.B.Adelmann, cit., vol II, pg. 787.

[91] P.T.Pugliesi, Istoria Apologetica  Dell'antica Ausonia, oggi detta Corigliano,  Napoli, 1707, pp.251-252;  G.Amato, Crono-istoria di Corigliano Calabro, Corigliano, 1884, p. 280.  Non sappiamo molto degli  eredi del nostro, ma un Giovanni  Battista Cappuccio  è documentato in due controversie, del 1811 e del 1813, con la Ducal Camera (Cfr. Quaderni Coriglianesi, a cura di L.F.Leo, Archivio Saluzzo, Duchi di Corigliano,  Inventario. Corigliano, 1990, pp 57, 65).

[92] La notizia dell'esistenza di questo manoscritto la si deve allo storico locale Pier Tommaso Pugliesi.

[93] Nella lettera del 29 novembre 1668 Capuccio scrive a margine a Malpighi: «Odo che sian fuor delle stampe molte opere del Boyle. Io non hò sè no' le sotto scritte desidero però ardentissimamente l'altre e mi raccomando in ciò à V.S.Ecc.ma caldam. le chimiche in particolare»   (BUB, ms 2085, vol.X, c.60 v.)

[94]Cfr. Willey B., La cultura inglese del seicento e del settecento, Bologna, Il Mulino. Jones R.F., Antichie e moderni. La nascita del movimento scientifico nell'Inghilterra del XVII secolo, Bologna, Il Mulino.

[95] Historia abscessus innominati, sine folliculo curationis a clarissimo Severino, institutae, epistola di J.B.Capucii contenta (Il caso dell'ascesso senza nome, senza follicolo, contenuto nella lettera di G.B.Capucci, curato dal chiarissimo Severino), in: M.A.Severini, De Abscessuum Recondita Natura, Libri VIII.  Napoli, 1763, pp. 94-97.  In questa opera il Severino riuniva in un corpo unico un certo numero di casi  e di osservazioni  sulla natura recondita degli ascessi che aveva sino ad allora trattato.

[96]Ad Partis Primæ Caput Quintum IOANNIS BAPTISTÆ CAPUCII Thurii Coriolanensis eximii Medicinæ Doctoris Exercitatio: An, et cur, ubi maximum Venenum, ibi est maxima Antidotus(Appendice al quinto capitolo della prima parte. Esercitazione dell'esimio medico coriglianese G.B.Capucci: Se e perchè, dove c'è il massimo veleno, lì c'è il massimo antidoto), in: M.A.Severini, Vipera Pythia Id est, De Viperae Natura, Veneno, Medicina, Demonstrationes, et Experimenta nova. Padova, 1650, pp. 511-517.  Cfr. anche W.Morabito, A  proposito di Marco Aurelio Severino,  in Medico e Paziente,  anno XVI, n°10, p.88.

[97] «Concludamus igitur, non creasse Altissimum absque bezoartico venenum, neque alexiterium sive viru[s], atque mixta quot lethifera sunt, ea intra se antidoti scintillam aliquam habere: quae si optimum adinvenerit separatorem, possit supra omnia alia alexipharmaca coniunctum extinguere venenum» (Exercitatio, p.517).  Con il nome di bezoar veniva indicata una pianta dell'America  Centrale la cui radice era utilizzata come antidoto contro la morsicatura di serpenti velenosi; alessiterio, o alexifarmaco (dal gr. aléxo, io allontano, e phàrmakon, veleno)  era chiamato, comunemente, qualsiasi antidoto ritenuto attivo contro i veleni dei serpenti.

[98] Sebastiano Bartoli, Artis medicae dogmatum communiter  receptorum examen  in  decem  exercitationes

paradoxicas distinctum,  Venetiis 1666.

[99] M.Malpighi,  Opera Posthuma, Amstelodami 1700, pp.42-43.

[100] Cfr. A.Dini,  Filosofia della Natura, Medicina, Religione. Lucantonio Porzio, Milano 1985, p.70.