Tradizioni
'A spàscina
Se il bambino manifesta un improvviso intontimento, se è colpito da inspiegabile febbre accompagnata da conati di vomito e da sbadigli frequenti ed insistenti, se gli occhietti del piccolo sono lucidi, non ci sono dubbi: qualche sguardo invidioso e maligno ha affascinata 'a criatura. Bisogna, quindi, chiamare subito una donna - o addirittura tre se l'affascino è forte - per fare 'a spascina, per allontanare, cioè, il malocchio. Con l'arrivo della donna iniziata e capace quindi di «esorcizzare», incomincia il rito dello sfascino. Ella fa tre segni di croce sulla fronte e due sulla testa o sugli occhi del bambino affascinato e mentalmente recita per tre volte la prima parte della formula rituale senza smettere per un solo istante di sbadigliare (se gli sbadigli sono intensi e prolungati è buon segno: 'a spàscind fa effetto).
Fora maluocchji! Fora maluocchji!
Ggioja 'i ru cori, t'ana affascinata!
China t'ha 'ffascinata
e ru cori s'ha 'lligrata;
e ru cori ccu ra mmenda
fuja affascina c'unn'è nnenda.
Ppi cquanda petra su 'a mmari
tandi pitrèti ti vuoja tirari.
A questo punto la donna si fa portare una bacinella d'acqua nella quale mette, con la mano sinistra, un numero dispari di pizzichi di sale (3, 5, 7) e mentre fa ciò, sempre in silenzio, recita la seconda parte della formula.
Mminàjiti mmaliritta
va ti jetti 'ndra mari
ghè ccarna bbiniritta
e nnun tieni chi ci fèri.
Versa, poi, dell'aceto nell'acqua facendo in modo che l'aceto cadendo descriva tre croci. Con quest'acqua la donna lava la faccia del bambino con la mano sinistra, sempre nello stesso verso - dalla parte inferiore alla superiore - e recita la terza parte
della formula per tre volte.
A nnumi 'i ru Petri,
a nnumi 'i ru Figghji,
a nnumi 'i ru Spiriti... Santi,
c'a 'ffascina 'i Vicinzulla
nu' gghjissa cchjù avanti.
Quest'acqua viene buttata in mezzo alla strada, possibilmente ad un crocevia. Subito dopo, la madre del bambino sta dietro alla porta socchiusa aspettando la persona che per prima passerà per il luogo ove è stata buttata l'acqua, al fine di accertare se ad affascinare il suo piccino è stato un uomo o una donna. Le formule rituali da me riportate sono le più popolari; ne esistono, però, molte altre versioni che le donne sono propense ad insegnare soltanto il 24 dicembre alle ore 24 e ciò per evitare
di perdere 'a spascina
(Tonino Russo)
Pasqua … e
dintorni
Ogni paese ha le tradizioni popolari per il periodo "i ra quarjsima", per quello di Pasqua e per le settimane che seguono, fino ad arrivare al mese di maggio. Naturalmente i riti della
liturgia pasquale sono gli stessi in tutto il mondo cattolico; ad essi si accompagnano però le piccole "manifestazioni", con cui il popolo usa dare libero sfogo alla propria religiosità. Vediamo
quante di queste tradizioni si sono mantenute e quante sono state dimenticate. Durante la prima domenica di Quaresima a Corigliano, una volta, in moltissimi osservavano la pratica del digiuno,
anche se non in modo rigido. I capi famiglia sorvegliavano affinchè tutto il nucleo familiare si comportasse in modo parsimonioso in questo periodo. Erano banditi i cibi "opulenti", carne, pasta
riccamente condita, salumi, polpette, mentre si preferivano cibi poveri, come le provviste preparate durante l'inverno, le minestre di verdura, le insalate. Un'altra tradizione molto seguita
dalle famiglie coriglianesi era quella, nell’avvicinarsi del periodo pasquale, di preparare i "Lavuricchi"composizioni a forma di cuore, stella o croce a seconda del recipiente che
veniva usato. In questi recipienti, andavano bene anche piatti di terracotta, si mettevano a mollo nell'acqua chicchi di grano, di ceci, di fagioli e si lasciavano germogliare al buio sotto il
letto. Dopo circa un mese spuntavano tanti germogli, che venivano poi adornati con nastri colorati creando delle forme molto spettacolari. Tutte queste composizioni, ognuna con un cartellino col
nome della famiglia che l'aveva realizzata, venivano poi portate in chiesa ed il parroco le usava per allestire "'u subburchә", (il sepolcro). Arriviamo così alla "settimana santa" che
inizia col rito della Via Crucis ed a Corigliano culmina nella spettacolare processione dei Misteri, la notte del Venerdì Santo. In questo periodo, poiché non vengono usate le campane, fino a non
molto tempo fa per chiamare a raccolta i fedeli veniva suonata "'a grancascia", una grande cassapanca di legno sulla quale era applicato un asse, pure di legno, dotato di numerosi pioli.
Girando una manovella questi pioli azionavano dei martelletti di legno che sbattendo con forza sulla cassa facevano un rumore grandissimo. Per annunciare invece il momento della "gloria", la
resurrezione del Cristo, i ragazzi usavano trascinare per le vie del paese una gran quantità di barattoli, pezzi di lamiera, vecchie marmitte, legati con una fune o con del fil di ferro. E
siccome le strade a quel tempo erano tutte acciottolate ne derivava un fracasso veramente... infernale. Un' altra simpatica consuetudine veniva osservata il primo maggio. In questa data a
Corigliano si usava "passare l'acqua" e mangiare fichi secchi: la credenza popolare voleva che in tal modo si venisse preservati per tutto l'anno dal morso "i ru scurzuni", del serpente.
Per l'occasione ci si recava "a ra Jacina", dove scorreva un piccolo ruscello adatto ad essere "passato" senza tanti rischi. I verdi prati adiacenti diventavano sede accogliente per
laute "mangiatelle" e nel pomeriggio si partecipava alla messa che veniva celebrata nella piccola e suggestiva chiesetta detta, appunto, della "lacina", già fin d'allora completamente
interrata, e di cui forse sarebbe il caso di tentare un recupero prima che vada completamente perduta.
(Tonino Casciaro)
Il Corpus Domini
Il Corpus Domini era una delle più belle feste religiose di Corigliano. I vicinati di ciascuna parrocchia, a turno, erano in festa. Una festa che spontaneamente si trasformava in una
disinteressata e simpatica gara per la scelta delle coperte (di cotone tessute al telaio a mano, all'uncinetto, ai ferri; di seta e di ciniglia) più belle da mettere in mostra. Con le coperte si
addobbavano gli altari che si approntavano nei vicinati; con le coperte si stendevano archi lungo le strade ed i vicoli. Quella del Corpus era, insomma, una festa che rallegrava gli occhi per la
grande varietà di colori ed i cuori per la sincera e devota partecipazione dei fedeli. Un sentito incontro annuale tra popolo e Dio. Gli archi si costruivano stendendo corde tra due balconi (o
finestre) di una stessa strada posti l'uno di fronte all'altro. Su queste corde si appendevano, piegate a metà, le coperte che venivano poi arricciate al centro con larghi nastri colorati di
seta. Gli altari si approntavano quasi sempre sulla soglia di un portone e ciò per creare movimento e senso di profondità. Con una coperta si copriva interamente il portone; altre, spiegate ed
arricciate, venivano sistematele superiormente e lateralmente. Sulla coperta centrale si appuntava un asciugamano di lino bianco ricamato e su questo un Crocefisso o un quadro della Madonna.
L'altare, artarinә,
veniva realizzato con un tavolino anch'esso ricoperto con un drappo colorato o con una coperta di seta. Su questo altare venivano sistemati dei semplici candelieri e dei portafiori. Su un piccolo
tappeto o scendiletto, messo ai piedi dell'altare, veniva sistemato un cuscino di velluto o di seta (raramente). Completavano l'addobbo alcuni vasi di fiori posti a destra ed a sinistra
dell'altare. Le processioni, rese più suggestive dalla partecipazione delle congregazioni religiose precedute dallo stendardo e seguite dal palio di seta colorato, sostenuto da quattro o sei aste
terminanti con grosse pigne di legno dorato, da due flabelli e dall'ombrellino di seta (portato quasi sempre da un notabile) che copriva il SS. Sacramento, percorrevano le strade delle parrocchie
sotto una pioggia di petali di rose, di gerani e di garofani. Quando il parroco, durante il percorso, incontrava un altarino, si avvicinava, si inginocchiava e poi impartiva la benedizione ai
presenti. Questa breve funzione religiosa, ripetuta presso ogni altarino, si chiudeva con l'accensione 'i 'nu filàrә
'i bbottә
comprato con i soldi raccolti 'ndri vicinanzә
o lasciati in una guantiera dai passanti. Da molti anni la festa del Corpus ha perso la sua parte coreografica: non si allestiscono più altari, non si stendono archi lungo le strade, non si
gettano petali di fiori e solo pochi fedeli adornano finestre e balconi con variopinte coperte. Limitata anche la parte religiosa perché non vengono fatte più dopo la processione ufficiale le
infra ottave. Le sole parrocchie di San Pietro e di Santa Maria escono ad anni alterni il giorno in cui cade la solennità del Corpo e Sangue del Signore e a queste processioni partecipano i
parroci e le congregazioni religiose delle altre parrocchie-Ognissanti (Sanduorә),
San Luca in S. Antonio e San Giovanni Battista m San Francesco.
(Antonio Russo)
‘A magiatella : istruzione per l’uso
Voglia di sole, di corse sui prati, di aria aperta frizzante di mare o fresca e profumata di bosco; voglia di godersi una giornata in libertà, lontano dalle abitudini, dal lavoro, dalla prigionia
delle case e del traffico, riuscendo magari ad accaparrarsi un angolino tranquillo di pineta o di spiaggia, dove pensare solo a riposarsi, e a divertirsi. Questo sogno, questa voglia di serenità,
di tranquillità, anche se per una sola giornata, ci prende un po' tutti : e allora perché non organizzare per bene un bel picnic, approfittando della prima domenica di sole per realizzarlo?
Bisogna dire che quella di organizzare picnic all'aria aperta è un' abitudine che noi Coriglianesi abbiamo da lunghissimo tempo. Infatti, ricordo che da bambino insieme "a ri cumpagnә 'i ru
vicinzә" organizzavamo, quasi ogni domenica, una "mangiatella sui prati 'i ra Jacina o sopra i cuozzә 'i ra Santacrucә". A Corigliano si usa ancora organizare
nel corso dell'anno tre tradizionali picnic, mentre un quarto oramai è caduto in disuso. Il primo in ordine di data - e anche il più importante è "'u Pascunә" (la Pasquetta), con i
tradizionali "cullurә ccu ri passulә, cullurә ccù ll'ovә e ri pisaturә..." II secondo, ormai in disuso, era quello che tradizionalmente si faceva il primo Maggio sui prati adiacenti il
ruscelletto di Lecco, in contrada Jacina . Il terzo è quello che si usa fare ancora oggi, in occasione della festa del Patire, nella meravigliosa pineta che circonda l'abbazia. In mezzo ai pini,
il Corpo Forestale dello Stato ha provveduto a realizzare molto razionalmente degli appositi spazi attrezzati con tavoli rustici, panche e persino dei barbecues in pietra. Quarto appuntamento
importante, il più massiccio certamente, è quello di "Menzagustә" (Ferragosto). Pietanza d'obbligo, fra le altre, '"i lumingià'nә chinә" (melanzane ripiene) e, come dolce, "
'a pitta chjna e ri gurpinellә" (focaccia ripiena e gonfiotti, entrambi ripieni di noci, mandorle e noccioline tritate: il tutto cucinato con miele e uva passa). Mete preferite per le
scampagnate sono le varie pinete marine che corrono lungo i molti chilometri delle nostre coste, " 'i turrә 'i ri jardini" (le case di campagna degli agrumeti), " 'a foss 'i ra
niva" (fossa della neve), località sopra Piana Caruso, nonché tutti i boschi e le pinete fino ad arrivare in Sila. Vediamo ora un po' come ci si può organizzare perché il nostro picnic possa
riuscire nel migliore dei modi. Innanzi tutto, occorre un capiente cesto, nel quale disporre tutte le vivande, che saranno avvolte in carta stagnola oppure in contenitori a chiusura ermetica, per
evitare la fuoriuscita del condimento. Per chi usa fare nel corso della bella stagione diverse scampagnate è preferibile che si attrezzi con quei completi da picnic in plastica dura, composti da
tutto il necessario per apparecchiare sull'erba una tavola per 4-6 persone, racchiusi razionalmente in simpatiche forme. Chi non gradisce sdraiarsi per terra - in verità, posizione molto scomoda
per mangiare - è bene che si attrezzi di tavoli pieghevoli che contengono anche 4 sedioline. Naturalmente tovaglia e tovaglioli saranno di carta. Per non rinunciare alla freschezza delle bevande
è opportuno l'uso di una borsa termica o frigo portatile, ideali anche per contenere i cibi che richiedono di essere conservati al fresco fino al momento della consumazione. Per il motivo
opposto, e cioè per non rinunciare ad un bel caffè caldo dopo pranzo, non dimenticate di riempire un capace thermos, alla mattina prima di partire. A tutto questo vanno aggiunti altri accessori
che, anche se non indispensabili, non vi faranno rimpiangere le comodità di casa: portasale e pepe, oliera e acetiera, se nel menù sono previste delle insalate (meglio sempre condirle sul posto;
risulteranno più fresche), un apribottiglie, un cavatappi, un apriscatole. E' senz'altro utile portarsi appresso una tanica di plastica di almeno 10 litri piena d'acqua, nel caso in cui il posto
che sceglierete per il picnic ne risultasse privo. E' doveroso anche disporre di alcuni sacchetti per la spazzatura, in modo da non lasciarsi dietro rifiuti. Raccomandazione d'obbligo
quest'ultima, ma necessaria: la natura ci ha dato tanto! Impariamo ad amarla e rispettarla. Tutto pronto, dunque? E allora pensiamo al menù. Cosa preparare? Non c'è che l'imbarazzo della scelta,
ad incominciare dai primi piatti (paste al forno, insalata di riso, ecc...), ai secondi piatti (carni variamente preparate, cotolette, involtini, pollo al forno o ripieno, polpettoni, ecc..). Non
dimenticate naturalmente un piccolo vasetto di "sardella salata", " 'na cucchja 'i cancarielli vuschentә" e ancora "sazizza, suprissata 'e capiccuollә" e un po' di
fette di "carna salata" appena tolta '"i ru tarzarulә"... Il vino? Naturalmente un bel rosso paesano, senza però esagerare, per permettere a chi guida di riportarvi a casa sani
e salvi. Non dimenticate, per passare il tempo con un mazzo di carte, una dama o scacchi, un pallone, un po' di musica e un plaid con relativo cuscino se amate fare un riposino all'ombra di un
pino. Ultimo consiglio: non andate all'avventura, stabilite prima il posto dove godervi la vostra bella giornata all'aria aperta, studiando in precedenza l'eventuale itinerario da percorrere.
Bene! Pare che tutto sia organizzato a dovere. Buon viaggio, buon divertimento e... buon appetito.
(Tonino Casciaro)
‘A festa i ru
puorchә
Motivo di allegria e festosa riunione con parenti ed amici era l'uccisione del maiale che di consueto avveniva nella stagione invernale e più esattamente nel periodo compreso tra l'inizio di
dicembre e la fine di gennaio. Considerando che la nostra economia è stata prevalentemente agricola (in passato lo era ancora di più), che anche nelle altre categorie sociali, oltre quella degli
agricoltori, l'aspirazione prevalente è stata quella di possedere un pezzo di terra, si può facilmente capire come fossero veramente poche le famiglie che non comprassero e allevassero almeno un
maiale. A quanto detto bisogna aggiungere che allevare un maiale non richiedeva grossi sacrifici finanziari, fatta eccezione per quello iniziale dell'acquisto dell'animale e che le famiglie con
tutti i prodotti ricavati dal maiale risolvevano buona parte dei problemi alimentari. Il maialino (’u ripassә) si acquistava nel mese da maggio a Schiavonea alla fiera i ra Scinzijonә.
Una volta comprato e castrato il maialino nei primi mesi veniva alimentato ccu ra vurràtә, sciacquatura di piatti, nella quale si aggiungevano tozzi di pane duro, bucce di frutta e
foglie di ortaggi vari. In ottobre avanzato la dieta diventava più sostanziosa, poiché era giunto il tempo in cui 'u puorchә si mìndivә a ru 'ngrassә. Alla solita brodaglia si aggiungeva della
crusca di grano (canigghja) o la stessa si impastava con zucca gialla bollita o con patate lessate. Tra un pasto e l'altro si somministravano ghiande e castagne. Sin dai primi mesi,
però, ed ogni giorno, dopo il pasto principale si dava al maiale 'na jundә 'i guorijә, una manciata d'orzo, che, secondo la tradizione, lo faceva allungare. Terminato l'ingrasso (che non
poteva durare più di un certo tempo al di là del quale ogni ulteriore somministrazione extra di cibo diventava inutile ed inefficace) si stabiliva il giorno in cui si facijә ru puorchә.
A questo giorno di grande allegria partecipavano solo i parenti stretti, pochi amici intimi ed un "esperto", una persona, cioè, capace di uccidere e "sfasciare" il maiale. Parenti ed amici, a
loro volta ed a turno, contraccambiavano l'invito quando uccidevano i propri maiali. La mattina del giorno stabilito gli invitati arrivavano di buon'ora. La padrona di casa faceva trovare il
fuoco già acceso i ravandә 'a turra, casa di campagna. Sistemava sul fuoco 'u trippitә e su questo una grande pentola di rame ('a quararә) piena d'acqua. Prima che
questa cominciasse a bollire, quattro uomini, l'esperto e tre volontari, andavano a prendere il maiale nel porcile e lo trascinavano verso la casa. Poi lo afferravano per i piedi e lo sollevavano
su un robusto tavolo tenendolo ben fermo. Durante questo breve percorso ed anche dopo, il maiale gridava ed una brutta bestemmia popolare, vo' farә 'i giirә i ru puorchә, da l'idea del
significato inequivocabile di quelle grida. Per tradizione e per buon augurio era chiamato il padrone di casa ad assestare il primo colpo (coltellata) che poteva essere anche simbolico. Il
sangue, raccolto in un recipiente, veniva adoperato per fare il sanguinaccio o veniva fatto coagulare e soffritto con cipolla, peperoncini verdi e cosparso di polvere di pepe rosso. Con l'acqua
bollente già pronta gli uomini pulivano il maiale togliendo le setole, cioè 'u lippulijavinә. Poi infilavano nei tendini dei piedi posteriori "u gammiellә e da questo lo appendevano ad
un solido ramo di albero e lo squartavano in due parti (minzinә) uguali dopo aver tolto l'uossә i ru purcàrә che toccava di diritto a chi aveva allevato il maiale. Si toglievano
anche tutte le interiora e si gonfiava con una cannuccia la vescica per conservarvi lo strutto. La lavorazione del maiale veniva fatta il giorno dopo, perché la carne s'avijә
dd'arrifriddarә, cioè doveva rassodarsi. Terminata questa prima fase che, come abbiamo detto, comprendeva la uccisione, la pulitura e la squartatura, la padrona di casa preparava del
soffritto a base di fegato e di grasso filettato di carne tagliato dalla parte del collo (i ra scannaturә). Preparava inoltre, come già detto, del soffritto di sangue. Questa prima e
"leggera" colazione era consumata con del freschissimo pane casarulә e del buon vino rosso. Dopo la colazione mentre gli uomini pulivano le interiora ed in modo particolare gli intestini
con i quali si confezionavano salsicce e soppressate, le donne iniziavano a preparare il pranzo che, come la prima colazione, era molto "leggero": minestrә 'i cappuccә ccu gusciularә,
maccheroni al ragù di maiale (maccarrunә 'i puorchә), polpette, costatine soffritte, contorni vari, pane e vino in abbondanza. Consumato in allegria e senza fretta il pranzo, la festa si
concludeva a tarda sera con suoni, canti e balli. Anche in questa occasione, per tradizione, aprivano le danze (interminabili tarantelle) i padroni di casa. La manipolazione della carne fatta il
giorno seguente nella stessa casa di campagna o in quella del paese, era compito esclusivo delle donne; agli uomini, invece, spettava solo quello della spasciatura, vale a dire, il sezionamento
della carne nelle sue diverse parti a seconda della destinazione. Del maiale tutto veniva utilizzato: la carne, a seconda del taglio, per confezionare salsicce, soppressale e capicolli; pezzi da
carne venati di grasso da fare salati, pepati e conservati sotto peso nei tarzarulә; rimasugli di lardo e ossa bolliti per fare 'i frittulә; orecchie, piedi, muso ed altre parti
della testa per fare 'u suzә; rettangoli di lardo, salato e appeso. Nelle soppressate si metteva un pò di lardo i ru cuzzuttarә perché più sodo. Le donne, inoltre, preparavano 'a
nnugghja (una specie di salsiccia pepata e aromatizzata con semi di finocchio selvatico, finuocchjә 'i timbә, ripiena di pezzetti di trippa, di mievuza, di lingua, di polmone e di
ruscimagghjә) adoperata per condire la "minestra maritata" che per tradizione si mangiava, e qualcheduno ancora mangia, il lunedì dopo Pasqua. A pochissimi intimi che non avevano potuto
partecipare, per ragioni diverse ma serie, alla festa del maiale veniva mandato 'u piattә nel quale si metteva un pezzo di fegato ccu ru picchjә ed un pezzo di filetto o di costata. Nel
piatto si metteva anche un'arancia in segno di augurio di lunga vita al capofamiglia. In caso di lutto stretto il "piatto" non si mandava. Il maiale non castrato, che si allevava esclusivamente
per la riproduzione, in dialetto coriglianese era chiamato verrә.
(Antonoo Russo)
Matrimoni d’altri tempi
Una parola breve che racchiude un mondo di sogni. Sognano i promessi sposi e i genitori che desiderano la sistemazione dei propri figli. Vorrei andare indietro nel tempo, quando celebrare un matrimonio era tanto diverso da oggi. Si seguivano le tradizioni e le usanze di una cultura tramandata negli anni, apportando alla cerimonia le poche modifiche che il lento cambiare dei tempi imponeva. A volte, nelle famiglie borghesi, il matrimonio si celebrava in casa, ma molto più bella era la cerimonia in chiesa. Dopo la celebrazione delle nozze, dalla chiesa a casa, gli sposi passavano sotto una pioggia di confetti: (cumbiettƏ a mmiennulƏ e curghiannƏ) mentre, alcune persone incaricate, facevano loro largo per difenderli dall'assalto dei bambini che quasi in una rissa tra loro si chinavano a raccogliere i confetti da terra per mangiarli (fidando nei propri anticorpi). A casa poi c'era il rinfresco con i dolci, liquori e secondo le possibilità anche gelati. Questa era già una modifica, perché nei primi decenni del Novecento si usava intrattenere gl'invitati con un lauto pranzo. Il pranzo rimase invece nelle tradizioni contadine, e durò quasi fino agli anni ottanta. E' bellissimo il ricordo dei loro matrimoni, le cui feste si svolgevano all'aperto (in montagna o in campagna). Si preparavano grandi tavolate piene di cibo genuino che era la gioia degli invitati e poi le sere d'estate sull'aia si ballava a suon di fisarmonica e di chitarra, e d'inverno si sfidava il freddo perché il buon vino riscaldava i cuori e i corpi. C'era davvero tanta semplicità e tanta genuinità! Poi c'è stato un cambio repentino. Oggi pochi matrimoni si svolgono nelle nostre chiese, molti, lontani dal paese. Comunque in tutti e due i casi dopo la cerimonia si corre ali ristorante, ben addobbato senza dubbio, ma freddo, impersonale e carissimo, e lì si resta per ore a consumare sofisticate pietanze, mentre gli sposi fra cento flash e cento statici sorrisi, si sentono i protagonisti del mondo. Sarebbe bello tornare alle antiche tradizioni, semplici e genuine, ma non si può perché purtroppo "nessuno torna indietro".
(Il Serratoren.49/1997 (E.R.)
‘A QuatrigghjƏ
Subito dopo le feste di Natale, gruppi di giovani si riunivano in un vano a piano terra ed iniziavano la preparazione delle quadriglie di
Carnevale. Le riunioni avvenivano il pomeriggio di domenica o la sera dei giorni feriali dopo che i giovani erano rientrati dalla campagna o si erano
ritirati dalle botteghe artigiane, dopo c'avijina scapulatƏ. La preparazione delle quadriglie, nelle sue molteplici figurazioni, era
lenta, seria e scrupolosa. L'orchestra era composta generalmente da fisarmonica, chitarra, violino e mandolino, ed i balli che di solito
venivano eseguiti erano la polca, la mazurca, il tango e la tarantella calabrese (per questo ballo era necessario il suono ritmato 'i ri
tnmmarinƏ). Quando la peparazione tecnica e la parte coreografica erano quasi completate, i giovani
iniziavano la discussione sulla scelta dei costumi da indossare, scelta che quasi sempre ricadeva su quelli tradizionali coriglìanesi, qualche
volta su quelli dei vicini paesi albanesi e, solo raramente, su costumi e maschere di altre regioni. L'ultima domenica di carnevale,
giorno di debutto delle quadriglie, per le strade di Corigliano vi era una gran festa. Le esibizioni avvenivano in tutte le principali piazze e, solo
in casi particolari ed a richiesta, in case private. Le quadriglie erano comandate o con una serie significativa di colpi ritmici
battendo il piede a terra o con la voce ed in questo caso i comandi venivano dati in francese, un francese nato in Francia ma cresciuto nelle
vinelle di Corigliano. E così, “au contraire” diventava “e
ccuntrè”, mentre “autour de moi” veniva trasformato nel bellissimo
“e tturdumè”; gli altri più usati comandi erano: “e ballƏ ‘nza, e rrullè, e ggran scè, e a ra
promenè”. Durante il periodo di carnevale per le strade si incontravano anche molti ragazzi e giovani in maschera con costumi
rimadiati nelle casse delle nonne (juppiinƏ, farigghjƏ, sinalƏ, frazzuluttunƏ o in quelle dei nonni (vecchie divise militari, vecchi
abiti di fustagno, vigogna, velluto con il relativo gilè, vesti sacerdotali). Il martedì, ultimo giorno di carnevale, c'era la
processione i carnaliverƏ muortƏ: un carro trainato da buoi o una carretta tirata da cavalli, trasportava per le strade
principali una bara con dentro GrigolijƏ-CarnaliverƏ. I parenti più stretti, fra cui la vecchia ed allampanata
Quarajisima, vestiti a lutto seguivano il feretro ed in lacrime chiedevano, con voce straziante, comprensione e
conforto con opere di bene: vino e salsicce. Questo rito di carnevale (la processione) è stato da pochi anni ripristinato,
mentre le quadriglie hanno fatto le loro ultime apparizioni la fine degli anni Cinquanta. La cena del martedì -a
sir'azatƏ nella quale non mancavano mai le polpette, chiudeva i festeggiamenti di carnevale. Se qualcuno mangiava
polpette o carne il mercoledì, giorno delle Sacre Ceneri, si diceva che aveva ruttƏ 'a càpƏ i a QuarajisimƏ, non
aveva, cioè, rispettato il digiuno che doveva essere osservato tra la fine del carnevale e la Pasqua.
(Antonio Russo)
'U vutƏ i ri virginellƏ
Sicuro sollievo spirituale e rifugio di speranza per le madri e le mogli che avevano i loro cari colpiti da improvvise malattie o lontani da casa per motivi diversi era il ricorso alla
preghiera. Sovente a questa si univa un voto, il quale, nella maggior parte dei casi, era proporzionato all'evento che lo aveva sollecitato. Così, se un marito emigrato in Argentina per lavoro
non scriveva più perché era ammalato o, come spesso accadeva, perché si era accasato con un'altra donna, se un figlio o un marito era al fronte e non dava notizie, le madri o le mogli ricorrevano
senz'altro al voto. Il voto poteva riguardare aspetti intimi della persona che lo formulava (rinunce: non mangiare frutta o carne in determinati giorni della settimana per tutta la vita;
sacrifici: andare a piedi nudi alla Madonna della Schiavonea o in ginocchio dalla porta della chiesa parrocchiale all'altare) oppure consistere in offerte di oggetti d'oro alla Madonna o di altro
genere a gente povera e bisognosa. Tra le offerte non materiali vi era quella delle dieci verginelle fatta alla Madonna. La donna che per un motivo molto serio aveva deciso per questo voto, si
metteva in giro nel vicinato (ed anche fuori di esso) alla ricerca di dieci bambine di età compresa tra gli otto e gli undici anni. Le amiche o le comari, conosciuto il motivo del voto,
concedevano con tutto il cuore e ccu ccienda màna le loro figlie e, se ne avevano la possibilità finanziaria, compravano alle proprie figlie anche il vestito bianco. Se ciò, sempre per motivi
finanziari, non era possibile, avrebbe dovuto provvedervi la donna che aveva fatto il voto. Le dieci bambine vestite di bianco venivano accompagnate dalla stessa donna alla chiesa o al
santuario dove era la Madonna destinataria dell'offerta. Le mete più frequenti erano la Madonna del Carmine o la Madonna della Schiavonea. Giunte a destinazione, le verginelle si
disponevano su due file in mezzo alle quali si metteva la donna del voto. Così disposte, entravano in chiesa e si fermavano davanti all'altare maggiore. La donna, dopo aver mostrato alla Madonna
l'offerta (le verginelle), esponeva ad alta voce e piangendo il suo caso,supplicava la grazia e recitava insieme alle dieci verginelle alcune preghiere. Terminato questo rito dell’offerta, le
bambine deponevano ai piedi dell’altare fasci di fiori ed insieme alla donna uscivano e ritornavano a casa. La donna prima do congedare le bambine doveva offrire loro da mangiare. Così, con
questo adempimento, necessario e secondo la tradizione determinante per la concessione della grazia richiesta,si chiudeva il complesso rituale del voto delle dieci verginelle.
( Antonio Russo)
U vattisimƏ
Nella cerimonia del battesimo, come in quella del matrimonio, si seguiva un rituale ben preciso, fatto di semplici ma inderogabili norme. La prima parte del cerimoniale si svolgeva in casa e riguardava sia la preparazione dei dolci e dei liquori e in qualche caso della cena (la cerimonia in chiesa avveniva sempre di pomeriggio) e sia la vestizione del neonato o per meglio dire la sua infasciatura con fasca, spraghina, cammiselh e juppiniella. Sulla fascia veniva messo un coprifasce con pizzi ed una specie di mantellina ricamata, chiamata matinatella ed in testa una cuffia di seta anch'essa ricaata. La seconda parte era precipuamente coreografica e riguardava il corteo. Questo veniva aperto da un ragazzo che portava la 'ndorciƏ (un cilindro di legno laccato, a forma di grossa candela del diametro di cinque centimetri e lungo un metro o poco più sul quale erano dipinti nelle parti estreme dei fiori e nella parte centrale una immagine sacara). Dalla parte superiore della 'ndorcia pendeva un lungo e largo nastro celeste di seta ed un fiocco nero se il battezzando era maschio; un nastro rosa, invece, se era femmina. Dietro al ragazzo con la 'ndorcia ne seguiva un altro con la ciucculatera (caffettiera con acqua calda); poi seguiva la donna (quasi sempre del vicinato) che portava il bambino e accanto a questa 'a vammanƏ, levatrice; chiudevano il corteo i parenti e gli amici più intimi. La madre del piccino o della piccina rimaneva a casa; il padre seguiva il corteo ma non assisteva al rito del battesimo perché, secondo la tradizione, "portava male" e quindi restava fuori della chiesa; il compare e la comare, invece, aspettavano in chiesa, e non partecipavano al corteo. Terminato il rito religioso, il compare consegnava una busta con soldi ed un'altra con confetti al parroco; una busta con soldi alla levatrice e faceva un piccolo regalo, sempre in danaro, al sagrestano, ai ragazzi della 'ndorcia e della ciucculatera, ed alla donna che aveva portato il neonato. Al ritorno dalla chiesa, le donne del vicinato facevano gli auguri al padre, al padrino ed alla madrina, lanciando confetti da porte, finestre, balconi. Anche la madre aspettava sull'uscio di casa con una guantiera di confetti per fare gli auguri al suo piccino e, a sua volta, riceverli da suo marito, dalla comare e dal compare. Una volta in casa, la madre si sedeva tenendo in grembo il suo bambino e la comare prima e gli altri parenti madrina era, in genere, il più importante: una catenina con medaglina d'oro, un braccialettino d'oro, una spilla d'oro oppure del denaro. Musiche e balli, intramezzati dalla distribuzione di dolci e liquori, chiudevano la parte ufficiale della cerimonia che segnava anche il momento in cui gli amici salutavano ed andavano via. Il compare ed i parenti stretti venivano invitati a prendere 'nu muzzucunƏ, il che significava prendere parte ad una cena in piena regola allietata dal rosso e genuino vino paesano.
(Antonio Russo)
QuannƏ si purtavƏ ru matrimmonijƏ
Dopo i primi sguardi esplorativi lanciati da lontano, dopo poche e furtive parole scambiate da una finestra o da un balcone, dopo qualche anonima e romantica serenata, arrivava il giorno in cui il giovane doveva uscire allo scoperto, dichiarare, cioè, ufficialmente alla famiglia della ragazza le sue intenzioni. Iniziavano, quindi, tra le due famiglie i primi contatti indiretti che avevano come unico scopo quello di sondare le disponibilità reciproche ad un eventuale matrimonio. Questi primi contatti venivano affidati o ad una persona di riguardo (parroco, medico di famiglia, ricco proprietario terriero) o ad una persona di fiducia (compare, parente intimo, vecchio amico di famiglia). Se il giovane veniva considerato un buon partito, iniziavano le trattative dirette ed ufficiali. Dopo qualche incontro riservato ai capifamiglia, incontri che si riferivano quasi sempre alla consistenza dotale, si stabiliva, di comune accordo, il giorno dell'entrata ufficiale del giovane in casa della promessa sposa, il giorno, cioè in cui si purtàva ru matrimmonijƏ. Il giorno stabilito, la famiglia del pretendente, preceduta da un ragazzo (poteva appartenere alla famiglia) che portava 'na ggistellaƏ, si recava a casa della giovane. Nella cesta vi era sistemato in bella mostra del pesce 'i prima (merluzzo, triglie, saraghi, occhiate, cefali) ed in bocca ad uno dei pesci un fiore rosso e l'anello di fidanzamento. Tutte le famiglie del vicinato, a conoscenza del lieto evento, si facevano trovare davanti l'uscio di casa con le guantiere in mano, pronte a lanciare, al passaggio del giovane, 'i curghjannƏ. Anche la famiglia della giovane aspettava sull'uscio per dare il benvenuto, con getti di confetti, (cannillinƏ, a m miennulunƏ, rizzƏ, ccu ru rosolijƏ), al promesso sposo ed alla sua famiglia. I parenti più intimi arrivavano alla rinfusa dopo un po' di tempo. Portavano ai giovani fidanzati una busta con denaro, accompagnando tale dono augurale con il solito getto di confetti. La cerimonia si concludeva allegramente con suoni e balli e distribuzione di liquori e coserucƏ, dolci fatti in casa. Il ballo preferito era la tarantella, ritmata dal suono di ciaramellƏ, catarrƏ abbattendƏ, mandulinƏ, organettƏ e tummarinƏ.
( Antonio Russo)
U matrimmonij
Terminato il periodo del fidanzamento ufficiale, le famiglie dei due promessi sposi stabilivano, di comune accordo, la data delle nozze. Di proposito si scartavano, perché ritenuti poco fortunati, i giorni di martedì e venerdì rispettando così il detto popolare secondo il quale nné dai vennirƏ e nné ddi martƏ nné s'affiraƏ e nné ssi partƏ e nné ssi mindƏ pinna 'ncartƏ. Così pure, per superstizione, si scartavano i mesi di maggio e di novembre. La mattina del matrimonio in casa della sposa c'era grande fermento per i preparativi finali eun viavai continuo di amiche della sposa, alcune delle quali (compagne d'infanzia) l'aiutavano ad agghindarsi. Indossato l'abito bianco, la sposa usciva da casa accompagnata da tutti i parenti ed amici che si disponevano n corteo su due file ed a piedi raggiungevano la chiesa. Dava il braccio alla sposa il padre, il fratello maggiore o una persona di riguardo, u bracciandaƏ, che per l'occasione indossava l'abito da cerimonia. Al passaggio del corteo nuziale tutti gli amici e conoscenti si scappellavano in segno di augurio, mentre da finestre e balconi gli auguri erano accompagnati da lanci di confetti fra i quali, alcune volte venivano messe delle monetine di rame. Dopo la cerimonia nuziale c'era il pranzo nella casa degli sposi. Per la disposizione dei posti a tavola si rispettavano regole ben precise ed inderogabili: a lato della sposa sedeva il compare d'anello, a lato dello sposo i suoi genitori e di fronte a questi sedevano i genitori della sposa; vicino al compare d'anello sedeva sua moglie e poi gli altri invitati in ordine d'importanza. Il più delle volte il bracciante non partecipava al pranzo nuziale e se decideva di andare via non veniva mandato a casa da solo, ma accompagnato da un familiare della sposa o dello sposo. Se possibile, si sceglieva un familiare giovane per 'U matrimmonijƏ ,che doveva portare una guantiera con dolci ed una bottiglia di liquore: un semplice ma sincero atto di riconoscenza verso il bracciante. In ogni banchetto nuziale la quantità e la varietà dei cibi serviti dipendevano dalle condizioni economiche della famiglia degli sposi; quali che fossero, però, queste condizioni, veniva sempre servito come primo piatto un tipo di zitoni condito con sugo di carne e formaggio pecorino nostrano, pasta ancora oggi da noi chiamata maccarrunƏ 'ia zitƏ; Al termine del banchetto, la festa continuava sino a tarda notte con canti, suoni e ballƏ'. Dimenticavo di dirvi che al parroco, il giorno prima del matrimonio, veniva mandata a casa una gallina bianca e che il letto della sposa veniva preparato, cunzàtaƏ, il giovedì o il sabato. A quest'ultima cerimonia, eseguita con una certa aria di mistero e di discreta intimità, non partecipavano le fanciulle non ancora maritate.
(Tratto da: 'A Purtella, di Antonio Russo, 1986)
Preparazione del primo letto
Corigliano, come altri paesi del meridione, ha delle tradizioni legate al matrimonio e al fidanzamento. Alcune ormai sono andate in disuso, altre sono ancora vive seppur vadano diradandosi. Una di queste è quella di "portare il corredo", preparato dalla madre della sposa, in corteo festoso dalla casa della famiglia della sposa a quella dello sposo:quest'usanza è ancora viva nei paesi del Magreb e rappresenta un momento di gioia per l'intera comunità. Un altro rituale importante, considerato auspicio di buona fortuna e augurio di fertilità, è quello della preparazione del letto, che consiste nella "vestizione" del letto stesso per la prima notte di nozze a pochi giorni dalla cerimonia. Di pomeriggio, un corteo di parenti e amici, guidato dalla mamma della sposa e dalle sorelle minori,si reca a casa dei futuri sposi con un grande cesto contenente il "parato" cioè il completo di primo letto e con quattro cuscini già foderati. Le lenzuola devono essere bianche, merlate con trine e pizzi e riccamente ricamate. Si entra sull'uscio tra spargimenti di confetti, caramelle e monete che i bimbi fanno a gara ad afferrare. La preparazione del primo letto consiste oltre che nella vestizione del letto della prima notte di nozze, anche nell'allestimento della casa con tutto il corredo a disposizione della sposa. Il rituale si compie a pochi giorni dalle nozze, trasferendo dapprincipio tutto il corredo nella nuova casa. Alla preparazione del primo letto partecipano le donne di casa, sia dalla parte della sposa sia dello sposo, ad esclusione assoluta della sposa: secondo la tradizione la sua partecipazione non porta fortuna e un'usanza più remota prevedeva che il letto fosse preparato da vergini... altrimenti portava male. Si usa fare decorazioni con confetti,petali di rose scrivendo o le iniziali degli sposi oppure un bel cuore al centro del letto... e i parenti o i vicini di casa che vengono a vedere, sotto il cuscino mettono dei soldi... Dopo che il letto è bello aggiustato. Dalla parte della sposa mettono le lingerie e dalla parte dello sposo la stessa cosa! Ad allestimento completato si getta sul letto un bambino o una bambina in segno di buon auspicio e di fertilità per la sposa. La tradizione vuole che la sposa non veda il primo letto fino al momento delle nozze, da quel giorno in poi le si apriranno nuove porte, come se questo fosse un inizio, un nuovo punto di partenza, che partirà nella nuova casa proprio dal letto (data l'ora tarda e la stanchezza). Il rito termina con un lauto banchetto, annaffiato da buon vino locale offerto rigorosamente dai familiari della sposa in casa di quest'ultima.
(Rosanna Taranto)
I sirinàtƏ
Fino all'inizio degli anni sessanta, ancora si poteva udire nel silenzio della notte il suono di qualche chitarra battente accompagnato dal canto di canzoni popolari coriglianesi. Talvolta al ritmo cadenzato della chitarra abbattendƏ si univa quello del tummarinƏ e nelle feste di Natale il suono melodioso e struggente della ciaramella. Le serenate, secondo l'argomento della canzone, erano r'amurƏ, 'i rispreggƏ, r'amicizijƏ, 'i rivirenzƏ e terminavano con la rispinzàtƏ (comiato) fatta di due versi che, nella maggior parte dei casi, erano attinenti all'argomento della canzone. Una canzone era formata da due o più stanzijƏ. Ogni stanza era cantata da uno, due o più candaturƏ: questa era 'a candàtƏ. Altri due cantatori, subito dopo, ripetevano alcuni versi della stanza con un tono di voce diverso e cambiando l'ordine delle parole che componevano i versi: questa era 'a vutàtƏ. Appena finita la serenata, se questa era d'amore e se il fidanzamento era già ufficiale, i suonatori venivano invitati dal capofamiglia in casa a bere un bicchiere di vino. Se il fidanzamento non era ancora avvenuto, il giovane che aveva portato la serenata si riteneva soddisfatto e felice se la sua amata si mostrava,anche per pochi istanti, dietro i vetri della finestra, perché con tale gesto avrebbe dimostrato di gradire non solo la serenata ma anche il suo corteggiamento. Nelle serenate d'amicizia l'invito in casa da parte del destinatario della serenata medesima era d'obbligo; il non farlo sarebbe stata una grave offesa. Infine, nelle serenate di deferenza i suonatori venivano regolarmente invitati in casa, ma questi rispettosamente declinavano l'invito e bevevano e mangiavano ciò che veniva loro offerto nel cortile del palazzo della persona nobile a cui si doveva rispetto o davanti al portone della persona «potente» a cui si doveva ubbidienza. Molto significativi sono a tal proposito alcuni versi della canzone
AmikƏ, bbhijƏ mi pijƏ a cumpirenzƏ
‘mperƏ a portƏ ti viegnƏ a ccandàrƏ
A ri scalùnƏ fazzƏ rivirenzƏ,
purƏ 'i murƏ vuojƏ salutarƏ.
AvandƏ salutƏ a ttijƏ ri gran putenzƏ
e ra MaronnƏ ca t'ha dd'aiutdrƏ.
t’ha dd’aiutàrƏ DdijƏ a rìognƏ scarenzƏ,
cumƏ ajutƏ ra varkƏ ‘mmienza màrƏ
(Antonio Russo)
I subburkƏ
La sera del giovedì santo per le strade di Corigliano c'è un viavai di gente che va a visitare i sepolcri, a ggiràrƏ 'i subburkƏ, allestiti
in tutte le chiese, fatta eccezione per quelle 'i ri RiformƏ, Nostra Signora di Costantinopoli, 'i ri MonachellƏ,
Santa ChiarƏ e dai San GiuvannƏ 'i DdijƏ, Nostra Signora
del Rosario, che vengono aperte al culto o la sola domenica per celebrarvi la Santa Messa o in occasione della festa dei santi titolari. Da qualche anno, rimane anche chiusa la primiceriale e
parrocchiale chiesa di San Giovanni Battista (San Jacopo Maggiore Apostolo), perché sconsacrata e adibita a circolo ricreativo dell'azione cattolica. La parrocchia è stata trasferita nella chiesa
di San Francesco di Paola. Su un gradino di uno degli altari della chiesa si mette un'urna di metallo dorato in cui viene riposto il SS. Sacramento, urna che viene adornata ed abbellita con vasi
di fiori e con i tradizionali lavuriellƏ. I lavuriellƏ o lavuricchjƏ sono dei
piatti di varia forma con dentro semi fatti germogliare e crescere - sino a raggiungere una ventina di centimetri di altezza - in un luogo buio ma ben arieggiato (e ciò spiega il colore verde
pallido dei germogli). I germogli vengono tenuti insieme con una legatura allentata fatta con un nastro di seta colorato, largo un cinque centimetri, sul quale viene spillato un cartoncino bianco
recante nome e cognome della donna che porta 'u lavuriellƏ come offerta al sepolcro. Per preparare 'u lavuriellƏ si prende
un piatto di portala, preferibilmente rotondo, si copre il fondo con stoppa o bambagia inzuppata di acqua e sulla stoppa si stende uno strato uniforme di semi fatti già ammollire in acqua per
ventiquattro ore. Poi si ripone, come ho già detto, il piatto così preparato in un luogo buio ma arieggiato e si lascia germogliare. Il tempo di germinazione è strettamente connesso con la
naturadei semi: così per la veccia, vizza, per i ceci, cìcirƏ, per il miglio, migghjƏ, occorrono sette
settimane; per il grano, rànƏ, ne occorrono quattro. Il tempo di germinazione per i semi sopra citati, si riduce a quattro settimane quando i lavuricchƏ vengono fatti
germogliare entro contenitori di legno sagomati a forma di croce o di cuore. Per la preparazione dei lavuriellƏ non vengono
mai adoperati i lupini, perché, secondo la tradizione, la pianta - che scampanella quando è secca - è stata maledetta dalla Madonna durante la sua fuga in Egitto con Gesù Bambino e San
Giuseppe.Venerdì mattina le donne ritirano dalle chiese i lavuriellhƏ benedetti, li portano a casa e ne fanno dei piccoli fasci che distribuiscono alle amiche del
vicinato. Quest'antichissima tradizione, che era quasi completamente scomparsa, da un paio d'anni mostra evidenti segni di ripresa.
(Antonio Russo)
I pagghiarƏ
Nei tre giorni che precedono la festa di San Giuseppe e quella di San Francesco di Paola, la sera, in quasi tutti i rioni, si
accendono dei gran falò, 'i pagghidrƏ, in onore dei due santi.I ragazzi
'i ri vicinanzƏ in tutti e tre i giorni, vanno a raccogliere frasche, legna e pucchjƏ (cisto marino) nei boschi. Fino a non molti anni addietro, i ragazzi, in quei giorni, facevano il giro di tutte le case del vicinato a chiedere
legna e promettevano in cambio la brace benedetta che la sera puntualmente portavano. Oggi il loro giro è molto ridotto e si limita a quelle poche case che ancora adoperano la legna per cucinare
o a quelle, anche poche, che la usano per il caminetto.
( Antonio Russo)
Dalla rete vi riporto un articolo di Giuseppe Pellegrino:
"I falò di San Giuseppe (i pagghjeri, a
Corigliano) hanno una tradizione antichissima. Sono presenti in moltissimi luoghi, sia del nord d’Italia che del sud.
Il significato di questa usanza da alcuni è interpretato come un rito propiziatorio e purificatorio,
proprio quando l’inverno sta per lasciare il posto alla primavera.
Altri sostengono che serve ad incoraggiare la luce del giorno a prevalere sul buio della notte, dato che in
questo periodo le giornate cominciano ad allungarsi.
Altri bruciano anche un fantoccio e traggono auspici dal modo in cui questo si consuma.
A Corigliano, dove questa tradizione si è persa, si facevano falò in tutti i vicinati, nelle tre sere che
precedevano la festa del 19 e valeva la regola della competizione, tra “vicinanzi”, a chi lo faceva più grande e più partecipato.
Per la raccolta delle frasche, a cui si aggiungevano arbusti come “i pucchj” e “ra jinostra”, ci si
mobilitava in tanti, soprattutto i ragazzi. Facilitati anche dal periodo, che coincide con la potature degli ulivi e delle viti. Più recentemente, soprattutto degli agrumi.
La sera si era tutti intorno al fuoco a ridere, scherzare, ballare, cantare, corteggiare le ragazze, in
barba alle severe regole del tempo.
I ragazzi più temerari giocavano al salto del fuoco, per mettersi in mostra.
Poi, alla fine, si procedeva alla spartizione della brace, secondo un rituale che prevedeva privilegiati i
non abbienti e coloro che avevano meglio contribuito con la legna alla realizzazione del falò, a dispetto dei tirchi.
Classiche erano le incursioni nei vicinati, per rubare un po’ di frasche. Un po’ per divertimento ed un po’
perché era più comodo reperirle così e poi si diminuiva il valore dell’altro. Si doveva montare perciò la guardia al “munsiello” (la catasta) per necessità e per non farsi “gabbulijere” (prendere
in giro)"
‘I Pagghieri ‘i Sam Brancischi
di Maria Chiaradia
Il ventidue aprile, ppi ttre ssiri a ra fila, noi ragazzi, jìvimi chesa ppi cchesa a ccircheri ruva ligni ppi ru pagghieri in onore di San Francesco di Paola, protettore di Corigliano e della sua gente. In quelle sere di aprile la vita della vinella ruotava intorno a quel rito, che si tramandava da più generazioni. Gli uomini portavano dal lavoro sàrcini ‘i ligni e ddi fraschi, affinchè ‘u pagghieri del vicinato fosse grande e maestoso, come il nostro Santo. Le donne, invece, preparavano cosi bboni da mangiare al falò. I ragazzi uscivano a frotte fuori dai confini del vicinato, per raccogliere altra legna da ardere; ne occorreva tanta, perché sognavano un falò immenso, con le fiamme che toccavano il cielo scuro di quelle magiche notti.
-Ohi zi', ni dduni ruva ligni ppi ru pagghieri?, chiedevamo, quando trucculàvimi a ri chesi ‘i fora vicinanzi.
-Sini sini, pirò, v’arraccummanni, stasira purtàtimi ‘nu paluttuni ‘i vrescia bbiniritta, sinò rumeni truveti ‘a porta ‘nzirreta e ri ligni v’i fazzi vìrriri ccu ru bbinòchili!", ci rispondeva la padrona di casa. Vrazzeti roppi vrazzeti, ‘a muntagna ‘i ligni e ffraschi, al centro della vinella, diventava, ranna e ggauta, quant’u castielli c'avìjimi ‘mbacci". Le sere ‘i ri pagghieri ‘i chesi stàvini ccu ri porti spalancheti, ‘a ggenta ghisciva avant’a porta e ccu ri siggiulli s'assitteva a rrota, ‘ntuorni a ru pagghieri. ‘I picciulilli in braccio alle nonne, gli uomini parràvini ‘ntr’a llori e bbivienni ‘nu bicchiricchi ‘i vini, attizzàvani ‘u fuochi. ‘I ggiuvinelle s'arucchiàvini ccu ri ziti. ‘I guagnuni quanti juochi, quanti zumpi chi facìvini, ggiranni ‘i cchè e ddi llè, cum’u carruòccili! Pu, ranni e ppittirilli, màsculi e ffìmmini, ricìvini ‘na prighiera a Ssam Brangischi, chi n'aviva dd'aiuteri cumi aviva aiutet’a varca ‘mmienza meri, chi ‘i ru terrameti n'avija ddi sgaviteri e fforz’e ssaluta n'avija ddi reri. E ‘ntra ‘na risa, ‘na prighiera, ‘nu fatti e ‘nu ccanti, ‘i vuci si gazàvini gauti e ‘ntinnenti, invocando: -Ebbiva ru Viecchi, ebbiva Sam Brangischi, ebbiva ru Vecchiarielli nuostri. Che belle erano le sere passate intorno al fuoco, con suoni e canti! Quanti matrimmonii si su ffatti intuorni a cchilli pagghieri. Quanti nimici avant’a cchillu fuochi hani fatti pecia. Che spettacolo era per noi ragazzi quando ‘ntr’i vampi ‘i ru fuochi bruciavano i ramoscelli ‘i pucchi e scoppiettavano cum’i tric trac ‘i Nateli, colorando il buio con scintille dorate simili a stelle cadenti. Intorno al fuoco ‘i guantieri chini ‘i rrobbi, jìvini e bbinìvini, ogni fami-glia condivideva con gli altri ciò che aveva preparato: ruva cullirielli, ‘nu piezzi ‘i pitta ccu ppisci saleti, ‘na grispella, ‘na fresa cunzeta, ‘na palluttella ‘i rosamarina, ‘na ‘mbosta ‘i sazizza ccu ppen’i ra chesa. Si condivideva tutto come in una grande famiglia, che amava e rispettava ‘u Santi ranni, Sam Brangi-schi, ‘u Viecchi ‘i tutti quanti. Alla fine, quando il grande fuoco era diventato brace, ogni famiglia si ghinchiva ru vrascieri ‘i vrescia bbiniritta per riscaldare e benedire la casa. Per noi ragazzi, dopo il divertimento ‘i ru pagghieri iniziava la fatica: dovevamo ricordare le famiglie che ci avevano dato la legna e portare loro la brace benedetta. Se la legna era stata poca nu palittuni scarsi, se la legna era stata tanta ruva palittuni ‘i vrescia chini a ccappielli. Eravamo attenti e scrupolosi a ppurteri ‘a vrescia a cchini n'avija ddeti ‘i ligni, perché, altrimenti, la sera dopo o l'anno successivo ‘i ligni, chilla famigghia n’i ffaciva bìrriri ccu ru binòchili.
(Veteranova Aprile 2015)
I sciuòrtili
II 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, a Corigliano era tradizione jittèr’i sciuòrtili. Si lasciava fondere, cioè, in un grosso cucchiaio, in un vecchio mestolo di metallo o in una scatoletta di latta qualche pezzetto di piombo (raccolto durante tutto l'anno e conservato in un posto sicuro) e poi si versava in una bacinella o in un qualsiasi recipiente. Dall'osservazione attenta e dall'interpretazione delle forme assunte dal piombo a contatto con l'acqua fredda, si ricavavano presagi - 'a bbona o 'a mala sciorta - validi per l'intero arco di un anno (dal 24 giugno al 23 giugno dell'anno successivo). E' importante ricordare che, per una sicura e valida riuscita 'i ri sciuòrtili, il piombo fuso doveva essere versato 'ndra l'acqua muta; bisognava, cioè, andare ad attingere l'acqua ad una sorgente, ad un pozzo o anche ad una fontanella pubblica e durante il tragitto non si doveva parlare con nessuno. Un qualunque discorso fatto per strada avrebbe contaminato la purezza dell'acqua ed influenzato l'esito del rito divinatorio. Ed è anche importante precisare che non tutti sono d'accordo sul giorno in cui si facevano 'i sciuòrtili; secondo alcuni, veramente pochi, il giorno era il 29 giugno, festa di San Pietro.
(Tonino Russo)
‘A Ninna Ninnarella
La sera del 24 dicembre, con le mappine legate a ttruscia, appese al braccio come panieri, impazienti, ci incontravamo, a ru larghi ‘i zi’ Carmiluccia, a ffrotti di cinque/sei ragazzi, per andare, casa per casa, a ccircare ‘a ninnarella. Questo rito ci dava la libertà di uscire fuori dai confini del nostro vicinato. Perciò ci sentivamo grandi. Se chiudo gli occhi, mi rivedo nel fiume di ragazzi che si snodava nei vicoli stretti del paese, illuminati dalla luce fioca dei lampioni e della luna nel cielo di dicembre. Nell’aria, col freddo chi taĝĝhiava ra faccia, respiravamo il profumo dei cibi, che le donne cucinavano per il cenone di quella sera di festa, che preannunciava la nascita ‘i ru Bbomminielli. Il profumo del cavolfiore e del baccalà fritto, quello forte delle rape con salsiccia e del baccalà con cipolla e pomodoro, la fragranza delle anguille e dd’i cipullizzi cucinate con il pepe rosso, ci avvolgevano di sensazioni. Rivedo, fuori dalle porte socchiuse, i bracieri di rame colmi di carboni ardenti, che sprigionavano stizzi ‘i fuochi. L’odore delle bucce dei mandarini e delle arance, che bruciavano insieme ai carboni, si spargeva nell’aria ed entrava nei nostri cuori di ragazzi ‘i ri vinelli. La ninnarella, era un evento suggestivo, pregno di simboli ancestrali inconsci e misteriosi. Quel rito, ogni anno, creava un’atmosfera di attesa, di emozioni, che riscaldavano l’anima. Nel trucculari alla porta, il cuore batteva forte, mentre trepidanti recitavamo il mantra che conoscevamo da sempre: - Tuppi tuppi! - Chini ghè? - Ninna e nninnarella, n’a runati ‘na cosicella, ppir amuri ‘i ru Bbomminielli? - Trasiti - trasiti. - E cca ti vò stari bbuoni ‘u capi ‘i ra casa! Rumorosi e felici, con il naso rosso e le mani ghiacciate, entravamo in casa per ricevere ‘a cosicella, che riponevamo ‘ntr’i trusci come un bene prezioso. I padroni di casa, non mancavano di chiederci: Quatrari’, chini suti. ‘A cquala razza appartiniti? ‘I qualu vicinanzi viniti? Nel rispondere, ridevamo felici e grati ppi ra cosicella, che avevamo ricevuto. La “cosicella” era ‘nu crustuli, ‘nu piezzi ‘i giurgiulena o ‘i pasta cumpetta, ruva lupinelli, ruva fichi alici, ‘nu pezzarielli ‘i filari ‘i castagni ‘mpurnati, ‘nu pumicielli rumanielli, ruva nuci. Se capitavamo in una famiglia, dove il marito era tornato ‘i ra Germania ppi ppassari ‘u santi Natali a ra casa ssua, allora potevamo anche avere dei cioccolatini o delle caramelle a mmenta vušchenta cumi ‘nu cancarielli. Nelle case ‘i ri jardinari, invece, ricevevamo mandarini, arance, piretti, granati e ‘nu cacchimi. Al momento di andare via, era d’obbligo ripetere bboni festi cuntenti e rinnovare l’augurio per il capofamiglia: ppi ccent’anni vi vò stari bbuoni ‘u capi ‘i ra casa. Altra storia, quando, dopo aver trucculati e formulato il mantra, la risposta era negativa: jativinni, ami ggià rati oppure jativinni, avimi pacia. Allora, mortificati e indispettiti, rispondevamo: e cca ti vò ccariri ‘u càntiri ‘mmienzi ‘a casa. Più veloci del vento, scappavamo, mentre dalla finestra la padrona di casa urlava: risgraziati, scustumati, facci tuosti e ffacci ‘i muri, si v’anĝhiappi, vi cci puorti a ccauci a ra casa ‘i ri mammi bboštri, c’un bb’ani ‘mparati ‘a bbona crianza. A fine serata, finito il percorso stabilito, ccu ri trusci traboccanti, ci avviavamo verso casa, soddisfatti e affamati.
(Articolo di Maria Chiaradia sul periodico VeteraNova)
Riti e Magie d’una volta
Il mese di Gennaio
Gennaio, per i coriglianesi, era un mese pieno di simboli, di leggende, di riti magici, che venivano vissuti e tramandati. Da piccola li ho visti formulare alle anziane del mio vicinato, nella mia famiglia, alle ragazze più grandi di me ed ero attenta a viverli, perché avevano il potere di evocare la buona fortuna, di sprigionare una sorta di magia, che ci accompagnava per tutto il mese e oltre. Formulare i riti significava accendere la speranza che l'anno nuovo sarebbe stato foriero di cose belle e buone. Ogni rituale era all'insegna del buon augurio, era evocativo ed esorcizzava le paure della gente.
Da quando non vivo più nella mia amata ‘vinella’ alcuni rituali vivono solo nella mia memoria e nel mio cuore, altri, invece, come una preghiera e un canto antico, li faccio vivere, sperando di tramandarli ai miei nipoti, affinché si innamorino delle tradizioni della nostra terra e dei nostri avi.
La notte di Capodanno era consuetudine buttare dalla finestra piatti e bicchieri scheggiati, priciegni vieĉĉhi chi a ra chesa ‘un sirbìvini ĉĉhiù. Buttare via gli oggetti vecchi rompendoli era un gesto simbolico, affinchè gli eventi poco belli, le difficoltà lavorative, i malesseri fisici ed esistenziali vissuti nell'anno che finiva si frantumassero in mille pezzi. Quei pezzi rotti e oscuri venivano affidati all'anno vecchio, affinché li portasse via. Nella vinella il rumore ‘i ri botticelle, ‘i ri tric trac spareti a ru ‘ndinni ‘i ra menzannotta, si confodeva con quello dei piatti e dei bicchieri, che, dopo il volo, si infrangevano a terra, tra le urla festose dei ragazzi, che facevano a gara a chi ne rompeva di più e a chi li faceva volare più in alto. Dalle finestre e nelle case volava anche un velo di zucchero per augurare che l'anni nuovi arrivassa dduci ruci e dduci fussa ppi ttutti l'anni.
Un pò prima che scoccasse la mezzanotte, nelle case si svolgeva un altro rituale: si spazzava ogni stanza con accortezza, come se spazzando il pavimento si purificasse la casa dalle cose brutte e dolorose, dall'invidia, dalle amarezze, dalle difficoltà economiche, ‘i ru mal'uoĉĉhi ‘i ra ggenta, dagli influssi negativi. Mentre si spazzava, si diceva all'anno vecchio: "Sciò, sciò, portatilli cu ttija, fori ‘i ra chesa mmija". Dopodiché si accendevano le luci nelle stanze, si aprivano le porte, per accogliere il nuovo anno: "Bbuoni vinuti, ca vo viniri cuntienti, ccu ri bbuoni risigni, ccu ra pecia, ‘a saluta e ll'anni luonghi".
Delle notti di capodanno vissuti in Vico Secondo Municipio ricordo anche lo scoppiettio ‘i ri frijapisci e dd’i ggirelli, che, bruciando nelle nostre mani, disegnavano nell'aria dei cerchi e facevano cadevano cascate di stelline d'argento, che illuminavano la penombra della vinella; era uno spettacolo incantevole che accendeva gli occhi di meraviglia e faceva cantare il cuore.
Ricordo anche che, nel cuore della notte, venivamo svegliati dalle voci degli amici di mio padre, che, con il suono della chitarra battente ‘i Zù Nardi ‘a Cuntenta e del mandolino ‘i Maštru Ruminichi ‘i l’armacheti, portavano la serenata a casa nostra: Amichi, ghija mi piji cumpirenzia
‘mperi la porta ti viegni a ccanteri.
A ru scaluni fazzi rivirenza
puri li muri vuoji saluteri.
Avanti saluti a ttija ri gran putenza
e ppu a Maronna chi t’ha dd’ ajutari.
T’ha dd’aiuteri Ddii a ogni scarenza
cuma ajuta ra varca ‘mmienz’u meri.
Chist'anni ghè nnivicheti a ra murtilla
ca ti vuoni steri bbuoni i picciulilli.
E mmo ch’è nnivicheti a ra muntagna
ca ti vò steri bbona ‘a cumpagna.
Si t’he’ rutti ‘u suonni mi cunpiatisci,
ti ggiri a ll’autri leti e tt’addurmisci.
E mio padre, puntualmente, apriva la porta, per farsi un bicchiere di vino con gli amici e ringraziarli per la serenata. Di quelle serenate ne ho nostalgia e nell'anima risento ancora l'eco, la bellezza e la poesia.
‘U juorni ‘i ra prima ‘i l'anni, di mattina, come ogni anno, dalla chiesa di San Giovanni, ghisciva ru Bbomminielli a ccircheri ‘a štrina. Era un Gesù Bambino bellissimo, ‘i quattri/cinc’anni, con i capelli lunghi a boccoli e la veste di seta trucchina, ccu ru sacchittielli a ru cuolli e ‘na palla ‘i gori ‘ntr’ì meni. Noi bambini, cum’u Bbomminielli, ccu ru sacchittielli ‘i tila e ra cordicella attaccheta a ru cuolli, seguivamo la processione da Via Carso, passando per la Portella, fino all'Acquanova. Arrivati in Piazza del Popolo, lasciavamo tutto e tutti per dare vita al rito a noi caro.
Andavamo, casa per casa, dai padrini, dai nonni, dagli zii, dagli amici più cari, ccu ru sacchittielli a ru cuolli, a fare gli auguri per il nuovo anno e a ricòĝĝhiri ‘a štrina, ripetendo la strofa magica: Prim’i misi, prim’i l'anni,
famm’a štrina ca ghè capiddanni.
Casa dopo casa, ‘u sacchittielli si ghinĉhiva ‘i cienti e ddi cinchicienti liri di metallo che, camminando, facevamo suonare ‘ntinni ‘ntinni", come una musica rara.
La leggenda racconta che a sira ‘i ra vijilia ‘i ra Bbifanìa s'han’i feri abutteri ‘i mangeri l'animeli, pirchì suli ppi cchilla notta, gli animali parlano e, se non sono sazi, jastìmini ‘u patruni.
Si racconta anche che questa stessa notte ‘i caneli cùrrini guoĝĝhi, ma solo per le persone ingenue, che non hanno malizia; ppi cchilla ggenta chi ghè scujiteta, che non ricorda questo miracolo e va a ĝĝhìnĉhiri ‘i vùmmuli senz’aviri ‘ntiziona ca ‘u caneli curra guoĝĝhi.
Come tutte le vigilie, anche per quella dell'Epifania, a fine cena non si sparecchia la tavola, pirchì ‘a notta,’a ‘gura ‘i ra chesa vè a mmangeri. E quante notti di vigilia, anche se la paura era tanta, cercavo di rimanere sveglia, per verificare si ‘a ‘guricella ‘i ra chesa jiva a mmangeri veramente; tremavo ad ogni piccolo rumore che sentivo, trattenevo il fiato e attendevo, ma poi la paura e la stanchezza avevano il sopravvento e mi addormentavo con la speranza che l'anno successivo avrei visto quant'era bbella ‘a ‘gura ‘i ra chesa nnoštra.
Un altro rito affascinante è quello delle novene; la notte della vigila dell'Epifania, prima di addormentarsi, dopo aver recitato tre Padre Nostro e tre Ave Maria,’i ggiuvinelli šchetti sussurravano:
Stasira ghè ra sira ‘i ra Bbifanìa
‘nzuonni mi vena ra furtuna mia.
Mi vena ‘nzuonni e nu’ mmi fè spagneri,
mi vena ddicia ‘u numi ‘i chini m’heji piĝĝhieri spuseri.
E in questa notte di miracoli se qualcuno voleva sapere come sarebbe stato il suo destino recitava:
Stasira ghè ra sira ‘i ra Bbifanija
‘nzuonni mi vena ra furtuna mia.
Mi vena ‘nzuonni e nu’ mmi fè spagneri,
mi vena ddicia cumi ghè ra sciorta mia.
Si ghè bbona: vigna carricheta e ttavula pareta,
si ghè mmalamenta jumi currenti e spini pungenti.
E ancora, quando si voleva augurare qualcosa di grande ad una persona cara, le si diceva:
Chi vo viniri cumi ‘a primi ‘i l'anni.
Quanti misteri e quanta ‘magaria’ tena ru misi ‘i Jinneri e Capiddanni… quante tracce ci sono nei miei ricordi e nel mio cuore, che spera e sogna che un pò di questa magia ritorni a vivere.
(articolo di Maria Chiaradia sul mensile Veteranova)
'U Sann Giuvanni
II legame tra due famiglie, nato da un
battesimo, era considerato indissolubile oltre che sacro e comportava un rispetto assoluto ppi ru Sann Giuvanni ed un certo numero di complicate ed a prima vista oscure cerimonie che
venivano scrupolosamente osservate e rispettate. Tra queste ce n'era una, a mio avviso, semplice ma molto significativa: se una comare passava per la strada 'i ru Sann Giuvanni, era
d'obbligo, perché l'usanza (scaturita dalla natura del vincolo) lo imponeva, una breve visita alla sua casa, e se la comare era uscita, depositava davanti alla porta una pietra. La comare
rientrando capiva, vedendo il segno lasciato, che durante la sua assenza aveva ricevuto la visita 'i ra cummara, e faceva di tutto per sapere se si trattava di una semplice visita di
passaggio e quindi di cortesia oppure di una visita di natura diversa (se, cioè, la comare aveva bisogno di qualcosa). Quando il comaraggio era incrociato, il San Giovanni diventava
fruntali ed il vincolo ancora più stretto e doppiamente sacro; appunto perciò, sempre secondo la tradizione, solo a loro era consentito, incontrandosi nell'altra vita, scambiare poche
parole di saluto.
(Tonino Russo)
'U passaggi ‘i l'acqua
Fino a circa quarantanni fa, in ogni casa, povera o ricca che fosse, vi era una cassa o un piccolo casciùni, dove si teneva ia provvista dei fichi secchi infornati: a ppallotta, a gghietta, a scarcella, a crucetta. La provvista serviva per l'inverno, però non veniva consumata tutta, ma una piccola scorta si conservava per il mese di maggio e serviva per compiere il rito 'i ri passaggi 'i l'acqua. Infatti, secondo un'antica tradizione, la mattina del primo maggio ogni componente la famiglia mangiava tre fichi secchi recitando per ognuno di essi un Pater Noster dedicato a San Paolo. E qui terminava la prima parte del rituale. Poi tutta la famiglia usciva ed andava alla ricerca di un qualunque corso d'acqua: ruscello, torrente, parte guadabile di un fiume, scoli di acque di sorgenti, ecc.. Ultimata la ricerca, iniziava la seconda parte del rituale, quella del passaggio attraverso l'acqua. Cominciava il capofamiglia: si faceva il segno della croce, recitava un altro Patrinnuostrsi dedicandolo ancora a San Paolo al quale chiedeva di tenere lontano da lui tutti i rettili, specialmente quelle velenosi, lìpiri e àsprici e quindi attraversava l'acqua. E così per tre volte. Al capofamiglia seguivano la moglie e poi ad uno ad uno i figli. Col passar del tempo, la seconda parte del rituale ha subito un cambiamento secondo il quale non si andava più sul posto a «passare l'acqua», ma si rimaneva a casa. Si metteva a terra un recipiente con acqua, generalmente una bacinella, e comodamente lo si scavalcava per tre volte rivolgendo a San Paolo la stessa preghiera e facendogli la stessa richiesta. Secondo alcune testimonianze raccolte, i due rituali, quello di mangiare i tre fichi secchi infornati e quello del «passaggio dell'acqua», non avvenivano lo stesso giorno: i tre fichi si mangiavano il primo maggio mentre l'acqua si passava il tre maggio, festa della Santa Croce. Ormai sono pochissimi i Coriglianesi che il primo maggio «passano l'acqua» e pochi anche quelli che lo stesso giorno appendono alla finestra o al balcone un asciugamano bianco ricamato con sopra appuntato un fiore rosso e una spilla d'oro (ricordo di famiglia) per festeggiare l'inizio del mese dedicato alla Madonna.
(Tonino Russo)
'I tririci cose
L'inizio del mese di dicembre si festeggiava in ogni famiglia con la frittura 'i ri culluriellƏ, frittura che si ripeteva qualche giorno prima di Natale insieme a quella 'i ri crùstulƏ, 'i ra pastacumpettƏ e dda giurgiulenƏ. Il primo culluriellƏ che veniva fritto aveva la forma 'i ru BbomminielƏ ed era destinato,annumàtƏ, in segno di augurio di buona salute, al capo di casa e solo questi poteva e doveva mangiarlo. Nella stessa padella venivano fritti 'i culluriellƏdestinati a ll'agùrƏ 'i ra casa
'A strinә
A capodanno i ragazzi si appendevano al collo un piccolo sacchettino di stoffa ed andavano a chiedere 'a strina al padrino, ai parenti ed agli amici di famiglia recitando una delle due seguenti filastrocche :
Bbonì, bbonì,bbonannә
fammә a strinә ch'è capidannә
Primә 'i misә, primә 'i l'annә
fammә 'a strinә ch'è capidannә
A vijilia i Santa Lucia
Il 12 Dicembre, vigilia di Santa Lucia, si mangiano tredici qualità di frutta, " i tridici cose" e si prepara "u rana vulluti", grano fatto ammollire in acqua per 24 ore, poi bollito e condido, appena raffreddato, "cu ru meli i ri fica", il miele di fichi.
A mezzogiorno del Sabato Santo
Alle 12 in punto del sabato santo durante il suono delle campane, la mamma con i figli si inginocchiavano, e faccia a terra recitavano delle preghiere dedicandole al Cristo risorto. Poi si alzavano, si lavavano il viso recitando la filastrocca:
Acqua santa bbiniritta
ghija mi l'avi e mmi rissicchi,
si rissiccassiri pur’i piccati
'i chill'ura chi sugni nati.
Infine si scambiavano gli auguri e le mamme distribuivano ai figli i dolci di Pasqua: 'u pisatura ai maschi e ra cullùra alle femmine.
Le Campanelle
della Madonna del Carmine
di Giulio Iudicissa
Mesi particolari quelli di luglio, agosto, settembre. In essi ricorrono fatti ed eventi, che la memoria collettiva va aiutata a conservare. Alcuni tra i tanti: il 3 luglio del 1911 viene fondata, nella Sagrestia della Chiesa di Santa Maria Maggiore, la Cassa Rurale. È un passo verso la solidarietà e contro l’sura. Nulla a che spartire con lo spietato sistema bancario d’ggi; l’1 agosto del 1806 i Francesi invadono Corigliano, provocando lutti e distruzioni. Tra eroismi e tradimenti, tanti gli edifici bruciati e i morti. Un danno oltremodo rilevante.
Luci ed ombre, così come in tutte le stagioni della storia. Averne contezza ci rende più cari il passato e i suoi protagonisti. Li tralascio, rinviando un loro racconto ad altra data. Scelgo, invece, per questa pagina, un’immagine semplice, veramente d’altri tempi, di cui resta in me solo una flebile eco, quella della parola, quasi favola, dei miei familiari.
Mi dico: quante sono le tradizioni scomparse negli ultimi decenni del ‘900? Tutte o quasi. Le ha spazzate via il disamore per la propria terra, favorito da una famiglia non più raccolta e da una scuola, spesso, a dir poco insipiente. Son finite, così, anche le famose “campanelle della Madonna del Carmine‟. Erano di terracotta e, fabbricate nel rione dei Pignatari, sul costone della chiesa del Carmine, venivano acquistate, durante l’anno, proprio in previsione della festa del 16 luglio. In quella data, con apposite cordicelle, venivano appese ai balconi e alle finestre, per essere suonate, per l’appunto, al passare della processione della Madonna del Carmine. Per gli adulti era un segno di devozione, per i ragazzi un giuoco. Comunque sia stato, sempre meglio di talune odierne sconcezze praticate nel corso delle festive ricorrenze. Nelle pratiche pie, voglio dire, c’era il segno chiaro d’una fede semplice, eppur sentita e forte. Corale. Lentamente, scomparvero, così, le fragili campanelle di terracotta, soppiantate da assurdi strumenti, che, issati a mò di trofei nelle piazze, chissà cosa avranno da spartire con la pietà dei Santi festeggiati. Così vanno le cose? No. Così, piuttosto, le facciamo andare, conniventi, talvolta, le autorità civili e religiose, quando abdicano al ruolo di indirizzo e di moderazione.
Fonte :
Antonio Russo - Il Serratore - Periodico Punto - Periodico VeteraNova